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#1
CXXI.

O pria sì cara al ciel del mondo parte,
che l’acqua cigne e ‘l sasso orrido serra,
o lieta sovra ogni altra e dolce terra,
che ‘l superbo Appennin segna e diparte,

che giova omai, se ‘l buon popol di Marte
ti lasciò del mar donna e de la terra?
Le genti a te già serve or ti fan guerra,
e pongon man ne le tue treccie sparte.

Lasso, né manca de’ tuoi figli ancora
chi, le più strane a te chiamando, inseme
la spada sua nel tuo bel corpo adopre.

Or son queste simili a l’antiche opre?
O pur così pietate e Dio s’onora?
Ahi secol duro, ahi tralignato seme!

CXXII.

Trifon, che ‘n vece di ministri e servi,
di loggie e marmi e d’oro intesto e d’ostro,
amate intorno elci frondose e chiostro
di lieti colli, erbe e ruscei vedervi,

ben deve il mondo in riverenza avervi,
mirando al puro e franco animo vostro,
contento pur di quel, che solo il nostro
semplice stato e natural conservi.

O alma, in cui riluce il casto e saggio
secolo, quando Giove ancor non s’era
contaminato del paterno oltraggio,

scendesti a far qua giù matino e sera,
perché non sia tra noi spento ogni raggio
di bel costume, e cortesia non pera.

CXXIII.

Quel dolce suon, per cui chiaro s‘intende
quanto raggio del ciel in voi riluce,
nel laccio, in ch‘io già fui, mi riconduce
dopo tant‘anni e preso a voi mi rende.

Sento la bella man, che ‘l nodo prende
e strigne sì, che ‘l fin de la mia luce
mi s‘avicina e, chi di fuor traluce,
né rifugge da lei né si difende:

ch‘ogni pena per voi gli sembra gioco,
e ‘l morir vita; ond‘io ringrazio Amore,
che m‘ebbe poco men fin da le fasce,

e ‘l vostro ingegno, a cui lodar son roco,
e l‘antico desio, che nel mio core,
qual fior di primavera, apre e rinasce.

CXXIV.

Così mi renda il cor pago e contento
di quel desio, ch’in lui più caldo porto,
e colmi voi di speme e di conforto
lo ciel, quetando il vostro alto lamento,

com’io poco m’apprezzo, e talor pento
de le fatiche mie, che ‘l dolce e scorto
vostro stil tanto onora, e sommi accorto
ch’amor in voi dritto giudicio ha spento.

Ben son degni d’onor gl’inchiostri tutti,
onde scrivete, e per le genti nostre
ne va ‘l grido maggior, che suon di squille.

Però s’aven che ‘n voi percota e giostre
l’empia fortuna, i sospir vostri e i lutti
sì raro don di Clio scemi e tranquille.

CXXV.

Cingi le costei tempie de l’amato
da te già in volto umano arboscel, poi
ch’ella sorvola i più leggiadri tuoi
poeti col suo verso alto e purgato;

e se ‘n donna valor, bel petto armato
d’onestà, real sangue onorar vuoi,
onora lei, cui par, Febo, non puoi
veder qua giù, tanto dal ciel l’è dato.

Felice lui, ch’è sol conforme obietto
a l’ampio stile, e dal beato regno
vede, amor santo quanto pote e vale;

e lei ben nata, che sì chiaro segno
stampa del marital suo casto affetto,
e con gran passi a vera gloria sale.

CXXVI.

Alta Colonna e ferma a le tempeste
del ciel turbato, a cui chiaro onor fanno
leggiadre membra, avolte in nero panno,
e pensier santi, e ragionar celeste,

e rime sì soavi e sì conteste,
ch’a l’età dopo noi solinghe andranno,
e scherniransi del millesim’anno,
già dolci e liete, ora pietose e meste,

quanti vi dier le stelle doni a prova,
forse estimar si può, ma lingua o stile
nel gran pelago lor guado non trova.

Solo, a sprezzar la vita, alma gentile,
desio di lui, che sparve, non vi mova;
né vi sia, lo star nosco, ingrato e vile.

CXXVII.

Caro e sovran de l’età nostra onore,
donna d’ogni virtute intero exempio,
nel cui bel petto, come in sacro tempio,
arde la fiamma del pudico amore,

se ‘n ragionar del vostro alto valore
scemo i suoi pregi e ‘l dever mio non empio,
scusimi quel, ch’in lui scorgo e contempio,
novitate e miracol via maggiore,

che da spiegarlo stile in versi o ‘n rime;
se non quel un, col quale al Signor vostro
spento tessete eterne lode e prime:

rara pietà, con carte e con inchiostro
sepolcro far, che ‘l tempo mai non lime,
la sua fedele al grande Avalo nostro

CXXVIII.

Carlo, dunque venite a le mie rime
vago di celebrar la donna vostra,
ch’al mondo cieco quasi un sol si mostra
di beltà, di valor chiaro e sublime?

E non le vostre prose elette e prime,
come gemma s’indora o seta inostra,
distendete a fregiarla, onde la nostra
e ciascun’altra età più l’ami e stime?

A tal opra in disparte ora son volto,
che per condurla più spedito a riva,
ogni altro a me lavoro ho di man tolto.

Voi, cui non arde il cor fiamma più viva,
devete dir: — omai di sì bel volto,
d’alma sì saggia, è ben ragion ch’io scriva .—

CXXIX.

Girolamo, se ‘l vostro alto Quirino,
cui Roma spense i chiari e santi giorni,
cercate pareggiar, sì che ne torni
men grave quel protervo aspro destino,

perché la nobil turba, onde vicino
mi sete, a gradir voi lenta soggiorni,
né v’apra a i desiati seggi adorni,
a le civili palme anco il camino,

non sospirate: il meritar gli onori
è vera gloria, che non pate oltraggio;
gli altri son falsi e torbidi splendori

del men buon più sovente e del men saggio,
che sembran quasi al vento aperti fiori,
o fresca neve d’un bel sole al raggio

CXXX.

Se col liquor che versa, non pur stilla,
sì largo ingegno, spegner non potete
la nova doglia, onde pietoso ardete,
perché v‘infiammi usata empia favilla,

sperate nel Signor, che pò tranquilla
far d‘ogni alma turbata, indi chiedete:
tosto avverrà, che lieto renderete
grazie, campato di Caribdi e Scilla.

Tacquimi già molt‘anni, e diedi al tempio
la mal cerata mia stridevol canna,
e volsi a l‘opra, che lodate, il core.

Così fan, che ‘l desir vostro non empio,
oblio de l‘arte, e quei, che più m‘affanna
ch‘adorne lui, del mio bel nido amore.

CXXXI.

Varchi, le vostre pure carte e belle,
che vergate talor per onorarmi,
più che metalli di Mirone e marmi
di Fidia mi son care e stil d’Apelle.

Ché se già non potranno e queste e quelle
mie prose, cura di molt’anni, o carmi,
nel tempo, che verrà, lontano farmi,
eterna fama spero aver con elle.

Ma dove drizzan ora i caldi rai
de l’ardente dottrina e studio loro
i duo miglior, Vettorio e Ruscellai?

Questi, e ‘l vostro Ugolin, cui debbo assai,
mi salutate: o fortunato coro,
Fiorenza e tu, che nel bel cerchio l’hai.

CXXXII.

Donna, cui nulla è par bella né saggia,
né sarà, credo, e non fu certo avante,
degna, ch’ogni alto stil vi lodi e cante
e ‘l mondo tutto in reverenzia v’aggia,

voi per questa vital fallace piaggia
peregrinando a passo non errante,
coi dolci lumi e con le voci sante
fate gentil d’ogni anima selvaggia.

Grazie del ciel, via più ch’altri non crede,
piover in terra scopre chi vi mira,
e ferma al suon de le parole il piede.

Tra quanto il sol riscalda e quanto gira,
miracolo maggior non s’ode e vede:
o fortunato chi per voi sospira!

CXXXIII.

Se stata foste voi nel colle Ideo
tra le Dive, che Pari a mirar ebbe,
Venere gita lieta non sarebbe
del pregio, per cui Troia arse e cadeo.

E se ‘l mondo v’avea con quei, che feo
l’opra leggiadra, ond’Arno e Sorga crebbe,
et egli a voi lo stil girato avrebbe,
ch’eterna vita dar altrui poteo.

Or sete giunta tardo a le mie rime,
povera vena e suono umile, a lato
beltà sì ricca e ‘ngegno sì sublime.

Tacer devrei, ma chi nel manco lato
mi sta, la man sì dolce al core imprime,
che, per membrar del vostro, oblio ‘l mio stato.

CXXXIV.

Sì divina beltà Madonna onora,
ch’avanza ogni ventura il veder lei:
ben è tre volte fortunato e sei,
cui quel sol vivo abbaglia e discolora.

E s’io potessi in lui mirar, qualora
di rivederlo braman gli occhi miei,
per poco sol, non pur quant’io vorrei,
questa mia vita a pien beata fora.

Ché da ciascun suo raggio in un momento
sì pura gioia per le luci passa
nel cor profondo, e con sì dolce affetto,

ch’a parole contarsi altrui non lassa:
né posso anco ben dir, quanto diletto
sol in pensar de la mia donna sento.

CXXXV.

Se mai ti piacque, Apollo, non indegno
del tuo divin soccorso in tempo farmi,
detta ora sì felici e lieti carmi,
sì dolci rime a questo stanco ingegno,

che ‘n ragionar del caro almo sostegno
de la fral vita mia possa quetarmi,
le cui lode, e scemar del vero parmi,
foran al Mantovan troppo alto segno:

la donna, che qual sia tra saggia e bella
maggior non pò ben dirsi, e sola agguaglia,
quanti fur del ciel doni unqua fra noi,

ch’io tanto onorar bramo; e se forse ella
non have onde gradirmi, almen mi vaglia,
ch’io vivo pur del sol degli occhi suoi

CXXXVI.

Se in me, Quirina, da lodar in carte
vostro valor e vostra alma bellezza,
fosser pari al desio l’ingegno e l’arte,
sormonterei qual più nel dir s’apprezza;

e Smirna e Tebe e i duo, ch’ebber vaghezza
di cantar Mecenate, minor parte
avrian del grido, e fora in quella altezza
lo stil mio, ch’è in voi l’una e l’altra parte.

Né sì viva riluce a l’età nostra
la Galla expressa dal suo nobil Tosco,
tal che sen’ duol Lucrezia e l’altre prime,

che non più chiara assai, per entro ‘l fosco
de la futura età, con le mie rime
gisse la vera e dolce imagin vostra.

CXXXVII.

Quella, che co’ begli occhi par che ‘nvoglie
Amor, di vili affetti e penser casso,
e fa me spesso quasi freddo sasso,
mentre lo spirto in care voci scioglie,

del cui ciglio in governo le mie voglie,
ad una ad una, e la mia vita lasso,
la via di gir al ciel con fermo passo
m’insegna, e ‘n tutto al vulgo mi ritoglie.

Legga le dotte et onorate carte,
chi ciò brama, e, per farsi al poggiar ale,
con lungo studio apprenda ogni bell’arte;

ch’io spero alzarmi, ove uom per sé non sale,
scorto dai dolci amati lumi, e parte
dal suono a l’armonie celesti equale.

CXXXVIII.

Giovio, che i tempi e l’opre raccogliete
del faticoso e duro secol nostro
in così puro e sì lodato inchiostro,
che chiaro eternamente viverete,

perché lo stile omai non rivolgete
a questa, novo in terra e dolce mostro,
donna gentil, che non di perle e d’ostro,
ma sol d’onor e di virtute ha sete?

Questa risplenderà, come bel sole,
fra gli altri lumi de le vostre carte,
e le rendrà via più gradite e sole.

Quest’una ha inseme, quanto a parte a parte
dar a mille ben nate a pena sòle,
di beltà, di valor natura et arte.

CXXXIX.

Signor, poi che fortuna in adorarvi,
quant’ella possa, chiaramente ha mostro,
vogliate al poggio del valor col vostro
giovenetto pensero e studio alzarvi.

Ratto ogni lingua, se ciò fia, lodarvi
udrete, e sacreravvi il secol nostro
tutto ‘l suo puro e non caduco inchiostro,
per onorato e sempiterno farvi.

Ambe le chiavi del celeste regno
volge l’avolo vostro, e Roma affrena
con la sua gran virtù, che ne ‘l fe’ degno.

La vita più gradita e più serena
ne dà virtute, caro del ciel pegno:
di vile e di turbato ogni altra è piena

CXL.

Se qual è dentro in me, chi lodar brama,
signor mio caro, il vostro alto valore,
tal potesse mostrarsi a voi di fore,
quando a rime dettarvi amore il chiama,

ovunque vero pregio e virtù s’ama,
s’inchinerebbe il mondo a farvi onore,
securo da l’oblio de le tarde ore,
se posson dar gl’inchiostri eterna fama.

Né men di quel, che santamente adopra
il maggior padre vostro, andrei cantando;
ma poi mi nega il ciel sì leggiadra opra.

S’appagherà tacendo e adorando
mio cor, infin che terra il suo vel copra:
non poca parte uom di sé dona amando.
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