![]() |
Rime 121 - 140 (20) - Druckversion +- Sonett-Forum (https://sonett-archiv.com/forum) +-- Forum: Sonett-Archiv (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=126) +--- Forum: Sonette aus romanischen Sprachen (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=857) +---- Forum: Italienische Sonette (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=821) +----- Forum: Pietro Bembo (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=1225) +----- Thema: Rime 121 - 140 (20) (/showthread.php?tid=22336) |
Rime 121 - 140 (20) - ZaunköniG - 05.10.2012 CXXI. O pria sì cara al ciel del mondo parte, che l’acqua cigne e ‘l sasso orrido serra, o lieta sovra ogni altra e dolce terra, che ‘l superbo Appennin segna e diparte, che giova omai, se ‘l buon popol di Marte ti lasciò del mar donna e de la terra? Le genti a te già serve or ti fan guerra, e pongon man ne le tue treccie sparte. Lasso, né manca de’ tuoi figli ancora chi, le più strane a te chiamando, inseme la spada sua nel tuo bel corpo adopre. Or son queste simili a l’antiche opre? O pur così pietate e Dio s’onora? Ahi secol duro, ahi tralignato seme! CXXII. Trifon, che ‘n vece di ministri e servi, di loggie e marmi e d’oro intesto e d’ostro, amate intorno elci frondose e chiostro di lieti colli, erbe e ruscei vedervi, ben deve il mondo in riverenza avervi, mirando al puro e franco animo vostro, contento pur di quel, che solo il nostro semplice stato e natural conservi. O alma, in cui riluce il casto e saggio secolo, quando Giove ancor non s’era contaminato del paterno oltraggio, scendesti a far qua giù matino e sera, perché non sia tra noi spento ogni raggio di bel costume, e cortesia non pera. CXXIII. Quel dolce suon, per cui chiaro s‘intende quanto raggio del ciel in voi riluce, nel laccio, in ch‘io già fui, mi riconduce dopo tant‘anni e preso a voi mi rende. Sento la bella man, che ‘l nodo prende e strigne sì, che ‘l fin de la mia luce mi s‘avicina e, chi di fuor traluce, né rifugge da lei né si difende: ch‘ogni pena per voi gli sembra gioco, e ‘l morir vita; ond‘io ringrazio Amore, che m‘ebbe poco men fin da le fasce, e ‘l vostro ingegno, a cui lodar son roco, e l‘antico desio, che nel mio core, qual fior di primavera, apre e rinasce. CXXIV. Così mi renda il cor pago e contento di quel desio, ch’in lui più caldo porto, e colmi voi di speme e di conforto lo ciel, quetando il vostro alto lamento, com’io poco m’apprezzo, e talor pento de le fatiche mie, che ‘l dolce e scorto vostro stil tanto onora, e sommi accorto ch’amor in voi dritto giudicio ha spento. Ben son degni d’onor gl’inchiostri tutti, onde scrivete, e per le genti nostre ne va ‘l grido maggior, che suon di squille. Però s’aven che ‘n voi percota e giostre l’empia fortuna, i sospir vostri e i lutti sì raro don di Clio scemi e tranquille. CXXV. Cingi le costei tempie de l’amato da te già in volto umano arboscel, poi ch’ella sorvola i più leggiadri tuoi poeti col suo verso alto e purgato; e se ‘n donna valor, bel petto armato d’onestà, real sangue onorar vuoi, onora lei, cui par, Febo, non puoi veder qua giù, tanto dal ciel l’è dato. Felice lui, ch’è sol conforme obietto a l’ampio stile, e dal beato regno vede, amor santo quanto pote e vale; e lei ben nata, che sì chiaro segno stampa del marital suo casto affetto, e con gran passi a vera gloria sale. CXXVI. Alta Colonna e ferma a le tempeste del ciel turbato, a cui chiaro onor fanno leggiadre membra, avolte in nero panno, e pensier santi, e ragionar celeste, e rime sì soavi e sì conteste, ch’a l’età dopo noi solinghe andranno, e scherniransi del millesim’anno, già dolci e liete, ora pietose e meste, quanti vi dier le stelle doni a prova, forse estimar si può, ma lingua o stile nel gran pelago lor guado non trova. Solo, a sprezzar la vita, alma gentile, desio di lui, che sparve, non vi mova; né vi sia, lo star nosco, ingrato e vile. CXXVII. Caro e sovran de l’età nostra onore, donna d’ogni virtute intero exempio, nel cui bel petto, come in sacro tempio, arde la fiamma del pudico amore, se ‘n ragionar del vostro alto valore scemo i suoi pregi e ‘l dever mio non empio, scusimi quel, ch’in lui scorgo e contempio, novitate e miracol via maggiore, che da spiegarlo stile in versi o ‘n rime; se non quel un, col quale al Signor vostro spento tessete eterne lode e prime: rara pietà, con carte e con inchiostro sepolcro far, che ‘l tempo mai non lime, la sua fedele al grande Avalo nostro CXXVIII. Carlo, dunque venite a le mie rime vago di celebrar la donna vostra, ch’al mondo cieco quasi un sol si mostra di beltà, di valor chiaro e sublime? E non le vostre prose elette e prime, come gemma s’indora o seta inostra, distendete a fregiarla, onde la nostra e ciascun’altra età più l’ami e stime? A tal opra in disparte ora son volto, che per condurla più spedito a riva, ogni altro a me lavoro ho di man tolto. Voi, cui non arde il cor fiamma più viva, devete dir: — omai di sì bel volto, d’alma sì saggia, è ben ragion ch’io scriva .— CXXIX. Girolamo, se ‘l vostro alto Quirino, cui Roma spense i chiari e santi giorni, cercate pareggiar, sì che ne torni men grave quel protervo aspro destino, perché la nobil turba, onde vicino mi sete, a gradir voi lenta soggiorni, né v’apra a i desiati seggi adorni, a le civili palme anco il camino, non sospirate: il meritar gli onori è vera gloria, che non pate oltraggio; gli altri son falsi e torbidi splendori del men buon più sovente e del men saggio, che sembran quasi al vento aperti fiori, o fresca neve d’un bel sole al raggio CXXX. Se col liquor che versa, non pur stilla, sì largo ingegno, spegner non potete la nova doglia, onde pietoso ardete, perché v‘infiammi usata empia favilla, sperate nel Signor, che pò tranquilla far d‘ogni alma turbata, indi chiedete: tosto avverrà, che lieto renderete grazie, campato di Caribdi e Scilla. Tacquimi già molt‘anni, e diedi al tempio la mal cerata mia stridevol canna, e volsi a l‘opra, che lodate, il core. Così fan, che ‘l desir vostro non empio, oblio de l‘arte, e quei, che più m‘affanna ch‘adorne lui, del mio bel nido amore. CXXXI. Varchi, le vostre pure carte e belle, che vergate talor per onorarmi, più che metalli di Mirone e marmi di Fidia mi son care e stil d’Apelle. Ché se già non potranno e queste e quelle mie prose, cura di molt’anni, o carmi, nel tempo, che verrà, lontano farmi, eterna fama spero aver con elle. Ma dove drizzan ora i caldi rai de l’ardente dottrina e studio loro i duo miglior, Vettorio e Ruscellai? Questi, e ‘l vostro Ugolin, cui debbo assai, mi salutate: o fortunato coro, Fiorenza e tu, che nel bel cerchio l’hai. CXXXII. Donna, cui nulla è par bella né saggia, né sarà, credo, e non fu certo avante, degna, ch’ogni alto stil vi lodi e cante e ‘l mondo tutto in reverenzia v’aggia, voi per questa vital fallace piaggia peregrinando a passo non errante, coi dolci lumi e con le voci sante fate gentil d’ogni anima selvaggia. Grazie del ciel, via più ch’altri non crede, piover in terra scopre chi vi mira, e ferma al suon de le parole il piede. Tra quanto il sol riscalda e quanto gira, miracolo maggior non s’ode e vede: o fortunato chi per voi sospira! CXXXIII. Se stata foste voi nel colle Ideo tra le Dive, che Pari a mirar ebbe, Venere gita lieta non sarebbe del pregio, per cui Troia arse e cadeo. E se ‘l mondo v’avea con quei, che feo l’opra leggiadra, ond’Arno e Sorga crebbe, et egli a voi lo stil girato avrebbe, ch’eterna vita dar altrui poteo. Or sete giunta tardo a le mie rime, povera vena e suono umile, a lato beltà sì ricca e ‘ngegno sì sublime. Tacer devrei, ma chi nel manco lato mi sta, la man sì dolce al core imprime, che, per membrar del vostro, oblio ‘l mio stato. CXXXIV. Sì divina beltà Madonna onora, ch’avanza ogni ventura il veder lei: ben è tre volte fortunato e sei, cui quel sol vivo abbaglia e discolora. E s’io potessi in lui mirar, qualora di rivederlo braman gli occhi miei, per poco sol, non pur quant’io vorrei, questa mia vita a pien beata fora. Ché da ciascun suo raggio in un momento sì pura gioia per le luci passa nel cor profondo, e con sì dolce affetto, ch’a parole contarsi altrui non lassa: né posso anco ben dir, quanto diletto sol in pensar de la mia donna sento. CXXXV. Se mai ti piacque, Apollo, non indegno del tuo divin soccorso in tempo farmi, detta ora sì felici e lieti carmi, sì dolci rime a questo stanco ingegno, che ‘n ragionar del caro almo sostegno de la fral vita mia possa quetarmi, le cui lode, e scemar del vero parmi, foran al Mantovan troppo alto segno: la donna, che qual sia tra saggia e bella maggior non pò ben dirsi, e sola agguaglia, quanti fur del ciel doni unqua fra noi, ch’io tanto onorar bramo; e se forse ella non have onde gradirmi, almen mi vaglia, ch’io vivo pur del sol degli occhi suoi CXXXVI. Se in me, Quirina, da lodar in carte vostro valor e vostra alma bellezza, fosser pari al desio l’ingegno e l’arte, sormonterei qual più nel dir s’apprezza; e Smirna e Tebe e i duo, ch’ebber vaghezza di cantar Mecenate, minor parte avrian del grido, e fora in quella altezza lo stil mio, ch’è in voi l’una e l’altra parte. Né sì viva riluce a l’età nostra la Galla expressa dal suo nobil Tosco, tal che sen’ duol Lucrezia e l’altre prime, che non più chiara assai, per entro ‘l fosco de la futura età, con le mie rime gisse la vera e dolce imagin vostra. CXXXVII. Quella, che co’ begli occhi par che ‘nvoglie Amor, di vili affetti e penser casso, e fa me spesso quasi freddo sasso, mentre lo spirto in care voci scioglie, del cui ciglio in governo le mie voglie, ad una ad una, e la mia vita lasso, la via di gir al ciel con fermo passo m’insegna, e ‘n tutto al vulgo mi ritoglie. Legga le dotte et onorate carte, chi ciò brama, e, per farsi al poggiar ale, con lungo studio apprenda ogni bell’arte; ch’io spero alzarmi, ove uom per sé non sale, scorto dai dolci amati lumi, e parte dal suono a l’armonie celesti equale. CXXXVIII. Giovio, che i tempi e l’opre raccogliete del faticoso e duro secol nostro in così puro e sì lodato inchiostro, che chiaro eternamente viverete, perché lo stile omai non rivolgete a questa, novo in terra e dolce mostro, donna gentil, che non di perle e d’ostro, ma sol d’onor e di virtute ha sete? Questa risplenderà, come bel sole, fra gli altri lumi de le vostre carte, e le rendrà via più gradite e sole. Quest’una ha inseme, quanto a parte a parte dar a mille ben nate a pena sòle, di beltà, di valor natura et arte. CXXXIX. Signor, poi che fortuna in adorarvi, quant’ella possa, chiaramente ha mostro, vogliate al poggio del valor col vostro giovenetto pensero e studio alzarvi. Ratto ogni lingua, se ciò fia, lodarvi udrete, e sacreravvi il secol nostro tutto ‘l suo puro e non caduco inchiostro, per onorato e sempiterno farvi. Ambe le chiavi del celeste regno volge l’avolo vostro, e Roma affrena con la sua gran virtù, che ne ‘l fe’ degno. La vita più gradita e più serena ne dà virtute, caro del ciel pegno: di vile e di turbato ogni altra è piena CXL. Se qual è dentro in me, chi lodar brama, signor mio caro, il vostro alto valore, tal potesse mostrarsi a voi di fore, quando a rime dettarvi amore il chiama, ovunque vero pregio e virtù s’ama, s’inchinerebbe il mondo a farvi onore, securo da l’oblio de le tarde ore, se posson dar gl’inchiostri eterna fama. Né men di quel, che santamente adopra il maggior padre vostro, andrei cantando; ma poi mi nega il ciel sì leggiadra opra. S’appagherà tacendo e adorando mio cor, infin che terra il suo vel copra: non poca parte uom di sé dona amando. |