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Rime - Parte prima 041 - 060 (19)
#1
XLI

Cesare, poi ch’ebbe, per tradimento
dell’egizian duttor, l’orrate chiome,
rallegrossi nel core, en vista come
si fa qual che di nuovo è discontento.

E allora ch’Annibàl ebbe ’l presento
del capo del fratel, ch’aveva nome
Asdrubal, ricoprì suo’ grave some
ridendo alla suo’ gente, ch’era in pianto.

Per somigliante ciascun uom tal volta
per atto allegro o per turbato viso
mostra ’l contrario di ciò che ’l cor sente.

Però, s’i’ canto, non dimostro riso:
fo per mostrare a chi mi mira e ascolta
ch’ai dolor gravi i’ sia forte e possente

XLII

Se zefiro omai non disacerba
il cor aspro e feroce di costei,
più mai non spero, per cridar omei,
trovar riposo alla mia pena acerba.

Ma, sì com’el rinnova i fiori e l’erba
e piante state morte mesi sei,
così porria far dolce e verde lei,
pietosa in vista, in fatti men superba.

Questa speranza sola ancor mi resta,
per la qual vivo, ingagliardisco e tremo
dubbiando che la morte non me invole.

Ond’io, prima che venga al punto estremo,
fortuna prego non me sia molesta
cotanto ai piacer mei quanto la suole.

XLIII

L’alta speranza, che li mia martiri
soleva mitigare alcuna volta,
in noiosa fortuna ora rivolta
de’ dolci mia pensier fatt’ha sospiri.

E gli amorosi e caldi mia desiri,
lacrime divenuti, la raccolta
rabbia per gli occhi fuor dal cor disciolta
...................................

Oh, s’io potesse creder di vedere,
canuta e crespa e pallida colei,
che con isdegno nuovo n’è cagione!

Ch’ancor la vita mia di ritenere,
che fugge, a più poter m’ingegnerei,
per rider la cambiata condizione.


XLIV

S’egli avvien mai che tanto gli anni miei
lunghi si faccin, che le chiome d’oro
vegga d’argento, ond’io or m’innamoro,
e crespo farsi il viso di costei,

e cispi gli occhi bei, che tanto rei
son per me lasso, ed il caro tesoro
del sen ritrarsi, e il suo canto sonoro
divenir roco, sì com’io vorrei:

ogni mio spirto, ogni dolore e pianto
si farà riso, e pur sarò sì pronto,
ch’io dirò: “Donna, Amor non t’ha più cara,

più non adesca il tuo soave canto,
pallid’e vizza non sei più in conto:
ma pianger poi l’essere stata avara”.

XLV

“O iniquo uomo, o servo disleale,
di che ti duol, di che vai lagrimando?
di che Amor e me vai biasimando
quasi cagion del tuo noioso male?

Qual arco apersi io mai, o quale strale
ti saettai? quai prieghi, o dove, o quando
ti fur fatti per me, che, me amando,
mi dessi il cor, di cui sì or ti cale?

Pregastu me, e sconiurasti Amore
ch’io t’avessi per mio: qual dunque inganno,
qual crudeltà t’è fatta? del mio onore

mi cal più troppo che del tuo affanno”.
Così Fiammetta par talor nel core
mi dica; ond’io mi doglio ed hommi il danno


XLVI

Quante fiate indrieto mi rimiro
e veggio l’ore e i giorni e i mesi e gli anni
ch’io ho perduto seguendo gl’inganni
della folle speranza e del desiro,

5 veggio il pericol corso ed il martiro
sofferto invan in gli amorosi affanni,
né trovar credo chi di ciò mi sganni,
tanto ne piango e contro a me m’adiro.

E maledico il dì che prima vidi
gli occhi spietati, che Amor guidaro
pe’ miei nel cor, che lasso e vinto giace.

O crudel morte, perché non m’uccidi?
Tu sola puoi il mio dolor amaro
finire e pormi forse in lieta pace.

XLVII

Se io potessi creder ch’in cinqu’anni,
ch’egli è che vostro fui, tanto caluto
di me vi fosse, che aver saputo
il nome mio voleste de’ mia danni

per ristorato avermi, de’ mia affanni
potrei forse sperare ancora aiuto;
né mi parrebbe il tempo aver perduto
a condolermi de’ mia stessi inganni.

Ma poich’egli è così, come sperare
posso merzé? come fin all’ardore,
che, quanto meno spero, è più cocente?

So si dovria cotal amor lasciare;
ma, non potendo, moro di dolore,
cagion essendo voi del fin dolente.

XLVIII

Dice con meco l’anima tal volta:
“Come potevi tu giammai sperare
che dove Bacco può quel che vuol fare,
e Cerere v’abbonda in copia molta,

e dove fu Partenopè sepolta,
ov’ancor le sirene uson cantare,
Amor, fede, onestà potesse stare
o fosse alcuna santità raccolta?

E s’tu ’l vedevi, come t’occuparo
i fals’occhi di questa, che non t’ama,
e la qual tu con tanta fede segui?

Destati omai, e fuggi il lito avaro,
fuggi colei la tua morte brama.
Che fai? che pensi? ché non ti dilegui?”.


XLIX

Son certi augei sì vaghi della luce,
ch’avendogli la notte già riposti
nel lor albergo e dentro a sé nascosti,
desti da picciol suono, ove traluce

quantunque picciol lume, gli conduce
il desio d’esso; al qual seguir disposti,
dove diletto cercan, ne’ sopposti
lacci sottentron drieto al falso duce.

Lasso, così sovente m’addiviene,
ché, dove io sento dal voler chiamarmi
drieto a’ begli occhi e falsi di costei,

presto vi corro, e da nuove catene
legar mi veggio onde discaprestarmi,
stolto, speravo per rimirar lei.

L

L’oscure fami e i pelagi tirreni,
e pigri stagni e li fiumi correnti,
mille coltella e gl’incendi cocenti,
le travi e i lacci e’’nfiniti veneni,

l’orribil rupi e massi, e’ boschi pieni
di crude fere e di malvagie genti,
vegnon, chiamate da’ sospir dolenti,
e mille modi da morire osceni.

E par ciascun mi dica: “Vienne, ch’io
son per iscaprestarti in un momento
da quel dolor nel quale Amor t’invischia”.

Ond’io a molti incontro col desio
talor mi fo, com’uom che n’ho talento;
ma poi la vita trista non s’arrischia.

LI

Le lagrime e i sospiri e il non sperare
a quelle fine m’han sì sbigottito,
ch’io me ne vo per via com’uom smarrito:
non so che dire e molto men che fare.

E quand’avvien che talor ragionare
oda di me (che n’ho tal volta udito),
del pallido color e del partito
vigore e del dolor che di fuor pare,

una pietà di me stesso mi viene
sì grande, ch’io desio di dir piangendo
chi sia cagion di tanto mio martiro.

Ma poi, temendo non aggiunger pene
alle mia noie, tanto mi difendo,
ch’io passo in compagnia d’alcun sospiro.

LII

Se mi bastasse allo scriver l’ingegno
la mirabil bellezza e ’l gran valore
di quella donna, a cui diede il mio core
Amor, della mia fede etterno pegno,

ed ancora l’angoscia ch’io sostegno
o per lo suo o per lo mio errore,
veggendo me della sua grazia fore
esser sospinto da crudele sdegno:

io mostrerei assai chiaro ed aperto
che ’l pianger mio e ’l mio esser smorto
maraviglia non sia, ma ch’io sia vivo.

Ma poi non posso, ciaschedun sia certo
ch’egli è assai maggiore il duol ch’io porto,
che ’l mio viso non mostra e ch’io non scrivo.


LIV

Così ben fusse inteso il mio parlare,
come l’intende i caldi sospir mei;
ché, ben ch’io viva in pianti acerbi e rei,
un gioco mi parrebbe a lacrimare.

Ma s’io potesse alquanto dichiarare
l’animo mio doglioso a chi vorrei,
son certo che poche ore viverei
fra tante angosce e tante pene amare.

Io farei quei begli occhi pietosi,
che, quando lacrimando a lor m’inchino,
non mi sarebbon fieri e disdegnosi.

Ond’io prego il mio fato e il mio destino
che porgan qualche luce a’ tenebrosi
spirti che hanno a far sì alto cammino


LV

Fuggano i sospir mei, fuggasi il pianto,
fugga l’angoscia e fuggasi el disio
che auto ho di morir; vada in oblio
ciò che contra ad Amor già pensai tanto;

torni la festa, torni el riso e ’l canto,
torni gli onor devuti al signor mio,
li meriti del qual han fatto ch’io
aggia la grazia bramata cotanto.

Lo sdegno, el qual a torto me negava
el vago sguardo degli occhi lucenti,
coi qual Amor mi prese, è tolto via;

e quel saluto, ch’io più desiava,
con umil voce e con atti piacenti
pur testé mi rendé la donna mia.

LVI

Se quel serpente che guarda il tesoro,
del qual m’ha fatto Amor tanto bramoso,
ponesse pur un poco el capo gioso,
io crederei con un sottil lavoro

trovar al pianto mio alcun ristoro:
né in ciò sarebbe il mio cor temoroso,
come che pria, in punto assai dubbioso,
già mi negasse il promess’adiutoro.

Ma pria Mercurio chiuderà que’ d’Argo
cantando di Siringa, che ’n que’ due
io possa metter sonno col mio verso;

e prima nelle lagrime ch’io spargo
morendo adempierò le voglie tue,
crudel Amor, ver me fiero e perverso!

LVII

Qualor mi mena Amor dov’io vi veggia,
ch’assai di rado avvien, sì cara siete,
l’anima, piena d’amorosa sete,
come la luce vede, che lampeggia

da’ bei vostri occhi, nel pensier vaneggia,
quello sperando ch’ancor non volete,
ciò è saziarsi, e, come voi vedete,
di mirarvi focosa, vi vagheggia.

E com’è stolto il mio vago pensiero!
Là ond’io credo refrigerio avere,
accese fiamme attingo a mill’a mille;

ma come cuocan non sento, nel vero,
mentre egli avvien ch’io vi possa vedere:
ma poi, partito, m’ardon le faville.

LVIII

Amor, se questa donna non s’infinge,
la mia speranza al suo termine viene,
perciò che ogni volta ch’egli avviene
che tu o forza di destin mi spinge

dov’ella sia, così ’l viso dipinge
di pallidezza subita e non tiene
le luci ferme, ma di desio piene
ora ver me l’allarga ed or le stringe;

e sì vinta si mostra dai sospiri,
che ’n vista par che sol prieghi per pace,
contenta ch’io in tale atto la miri.

Io che farò, che nella tua fornace
ardo, premuto da mille desiri?
Non arderò, poi veggio che le piace?


LIX

Non deve alcuno, per pena soffrire,
quanto che ’l tempo paia lungo o sia,
gittar del tutto la speranza via
o stoltamente cercar di morire:

ché un’ora sola può sopravvenire,
la qual discaccia ogni fortuna ria
e sì consola altrui, che l’omo oblia
danno e dolor e fatica e martire.

Ed io el so, el qual già lungamente
chiesi mercé con doloroso pianto
agli occhi bei, che già fur dispiatati;

non sperando ciò, subitamente
Amor i mie’ suspir rivolse in canto,
e sento la letizia de’ beati.

LX

Chi che s’aspetti con piacer i fiori
e di veder le piante rivestire
e per le selve gli uccelletti udire
cantando forse i lor più caldi amori,

io non son quel; ma, com’io sento fuori
zefiro e veggio il bel tempo venire,
così m’attristo, e parmi allor sentire
nel petto un duol, il qual par che m’accuori.

Ed è di questo Baia la cagione,
la qual invita sì col suo diletto
colei che là sen porta la mia pace,

che non mel fa alcun’altra stagione;
e che io vadia là mi è interdetto
da lei, che può di me quel che le piace.
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