![]() |
Rime - Parte prima 041 - 060 (19) - Druckversion +- Sonett-Forum (https://sonett-archiv.com/forum) +-- Forum: Sonett-Archiv (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=126) +--- Forum: Sonette aus romanischen Sprachen (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=857) +---- Forum: Italienische Sonette (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=821) +----- Forum: Italienische Autoren B (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=1399) +------ Forum: Giovanni Boccaccio (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=1224) +------ Thema: Rime - Parte prima 041 - 060 (19) (/showthread.php?tid=22309) |
Rime - Parte prima 041 - 060 (19) - ZaunköniG - 28.09.2012 XLI Cesare, poi ch’ebbe, per tradimento dell’egizian duttor, l’orrate chiome, rallegrossi nel core, en vista come si fa qual che di nuovo è discontento. E allora ch’Annibàl ebbe ’l presento del capo del fratel, ch’aveva nome Asdrubal, ricoprì suo’ grave some ridendo alla suo’ gente, ch’era in pianto. Per somigliante ciascun uom tal volta per atto allegro o per turbato viso mostra ’l contrario di ciò che ’l cor sente. Però, s’i’ canto, non dimostro riso: fo per mostrare a chi mi mira e ascolta ch’ai dolor gravi i’ sia forte e possente XLII Se zefiro omai non disacerba il cor aspro e feroce di costei, più mai non spero, per cridar omei, trovar riposo alla mia pena acerba. Ma, sì com’el rinnova i fiori e l’erba e piante state morte mesi sei, così porria far dolce e verde lei, pietosa in vista, in fatti men superba. Questa speranza sola ancor mi resta, per la qual vivo, ingagliardisco e tremo dubbiando che la morte non me invole. Ond’io, prima che venga al punto estremo, fortuna prego non me sia molesta cotanto ai piacer mei quanto la suole. XLIII L’alta speranza, che li mia martiri soleva mitigare alcuna volta, in noiosa fortuna ora rivolta de’ dolci mia pensier fatt’ha sospiri. E gli amorosi e caldi mia desiri, lacrime divenuti, la raccolta rabbia per gli occhi fuor dal cor disciolta ................................... Oh, s’io potesse creder di vedere, canuta e crespa e pallida colei, che con isdegno nuovo n’è cagione! Ch’ancor la vita mia di ritenere, che fugge, a più poter m’ingegnerei, per rider la cambiata condizione. XLIV S’egli avvien mai che tanto gli anni miei lunghi si faccin, che le chiome d’oro vegga d’argento, ond’io or m’innamoro, e crespo farsi il viso di costei, e cispi gli occhi bei, che tanto rei son per me lasso, ed il caro tesoro del sen ritrarsi, e il suo canto sonoro divenir roco, sì com’io vorrei: ogni mio spirto, ogni dolore e pianto si farà riso, e pur sarò sì pronto, ch’io dirò: “Donna, Amor non t’ha più cara, più non adesca il tuo soave canto, pallid’e vizza non sei più in conto: ma pianger poi l’essere stata avara”. XLV “O iniquo uomo, o servo disleale, di che ti duol, di che vai lagrimando? di che Amor e me vai biasimando quasi cagion del tuo noioso male? Qual arco apersi io mai, o quale strale ti saettai? quai prieghi, o dove, o quando ti fur fatti per me, che, me amando, mi dessi il cor, di cui sì or ti cale? Pregastu me, e sconiurasti Amore ch’io t’avessi per mio: qual dunque inganno, qual crudeltà t’è fatta? del mio onore mi cal più troppo che del tuo affanno”. Così Fiammetta par talor nel core mi dica; ond’io mi doglio ed hommi il danno XLVI Quante fiate indrieto mi rimiro e veggio l’ore e i giorni e i mesi e gli anni ch’io ho perduto seguendo gl’inganni della folle speranza e del desiro, 5 veggio il pericol corso ed il martiro sofferto invan in gli amorosi affanni, né trovar credo chi di ciò mi sganni, tanto ne piango e contro a me m’adiro. E maledico il dì che prima vidi gli occhi spietati, che Amor guidaro pe’ miei nel cor, che lasso e vinto giace. O crudel morte, perché non m’uccidi? Tu sola puoi il mio dolor amaro finire e pormi forse in lieta pace. XLVII Se io potessi creder ch’in cinqu’anni, ch’egli è che vostro fui, tanto caluto di me vi fosse, che aver saputo il nome mio voleste de’ mia danni per ristorato avermi, de’ mia affanni potrei forse sperare ancora aiuto; né mi parrebbe il tempo aver perduto a condolermi de’ mia stessi inganni. Ma poich’egli è così, come sperare posso merzé? come fin all’ardore, che, quanto meno spero, è più cocente? So si dovria cotal amor lasciare; ma, non potendo, moro di dolore, cagion essendo voi del fin dolente. XLVIII Dice con meco l’anima tal volta: “Come potevi tu giammai sperare che dove Bacco può quel che vuol fare, e Cerere v’abbonda in copia molta, e dove fu Partenopè sepolta, ov’ancor le sirene uson cantare, Amor, fede, onestà potesse stare o fosse alcuna santità raccolta? E s’tu ’l vedevi, come t’occuparo i fals’occhi di questa, che non t’ama, e la qual tu con tanta fede segui? Destati omai, e fuggi il lito avaro, fuggi colei la tua morte brama. Che fai? che pensi? ché non ti dilegui?”. XLIX Son certi augei sì vaghi della luce, ch’avendogli la notte già riposti nel lor albergo e dentro a sé nascosti, desti da picciol suono, ove traluce quantunque picciol lume, gli conduce il desio d’esso; al qual seguir disposti, dove diletto cercan, ne’ sopposti lacci sottentron drieto al falso duce. Lasso, così sovente m’addiviene, ché, dove io sento dal voler chiamarmi drieto a’ begli occhi e falsi di costei, presto vi corro, e da nuove catene legar mi veggio onde discaprestarmi, stolto, speravo per rimirar lei. L L’oscure fami e i pelagi tirreni, e pigri stagni e li fiumi correnti, mille coltella e gl’incendi cocenti, le travi e i lacci e’’nfiniti veneni, l’orribil rupi e massi, e’ boschi pieni di crude fere e di malvagie genti, vegnon, chiamate da’ sospir dolenti, e mille modi da morire osceni. E par ciascun mi dica: “Vienne, ch’io son per iscaprestarti in un momento da quel dolor nel quale Amor t’invischia”. Ond’io a molti incontro col desio talor mi fo, com’uom che n’ho talento; ma poi la vita trista non s’arrischia. LI Le lagrime e i sospiri e il non sperare a quelle fine m’han sì sbigottito, ch’io me ne vo per via com’uom smarrito: non so che dire e molto men che fare. E quand’avvien che talor ragionare oda di me (che n’ho tal volta udito), del pallido color e del partito vigore e del dolor che di fuor pare, una pietà di me stesso mi viene sì grande, ch’io desio di dir piangendo chi sia cagion di tanto mio martiro. Ma poi, temendo non aggiunger pene alle mia noie, tanto mi difendo, ch’io passo in compagnia d’alcun sospiro. LII Se mi bastasse allo scriver l’ingegno la mirabil bellezza e ’l gran valore di quella donna, a cui diede il mio core Amor, della mia fede etterno pegno, ed ancora l’angoscia ch’io sostegno o per lo suo o per lo mio errore, veggendo me della sua grazia fore esser sospinto da crudele sdegno: io mostrerei assai chiaro ed aperto che ’l pianger mio e ’l mio esser smorto maraviglia non sia, ma ch’io sia vivo. Ma poi non posso, ciaschedun sia certo ch’egli è assai maggiore il duol ch’io porto, che ’l mio viso non mostra e ch’io non scrivo. LIV Così ben fusse inteso il mio parlare, come l’intende i caldi sospir mei; ché, ben ch’io viva in pianti acerbi e rei, un gioco mi parrebbe a lacrimare. Ma s’io potesse alquanto dichiarare l’animo mio doglioso a chi vorrei, son certo che poche ore viverei fra tante angosce e tante pene amare. Io farei quei begli occhi pietosi, che, quando lacrimando a lor m’inchino, non mi sarebbon fieri e disdegnosi. Ond’io prego il mio fato e il mio destino che porgan qualche luce a’ tenebrosi spirti che hanno a far sì alto cammino LV Fuggano i sospir mei, fuggasi il pianto, fugga l’angoscia e fuggasi el disio che auto ho di morir; vada in oblio ciò che contra ad Amor già pensai tanto; torni la festa, torni el riso e ’l canto, torni gli onor devuti al signor mio, li meriti del qual han fatto ch’io aggia la grazia bramata cotanto. Lo sdegno, el qual a torto me negava el vago sguardo degli occhi lucenti, coi qual Amor mi prese, è tolto via; e quel saluto, ch’io più desiava, con umil voce e con atti piacenti pur testé mi rendé la donna mia. LVI Se quel serpente che guarda il tesoro, del qual m’ha fatto Amor tanto bramoso, ponesse pur un poco el capo gioso, io crederei con un sottil lavoro trovar al pianto mio alcun ristoro: né in ciò sarebbe il mio cor temoroso, come che pria, in punto assai dubbioso, già mi negasse il promess’adiutoro. Ma pria Mercurio chiuderà que’ d’Argo cantando di Siringa, che ’n que’ due io possa metter sonno col mio verso; e prima nelle lagrime ch’io spargo morendo adempierò le voglie tue, crudel Amor, ver me fiero e perverso! LVII Qualor mi mena Amor dov’io vi veggia, ch’assai di rado avvien, sì cara siete, l’anima, piena d’amorosa sete, come la luce vede, che lampeggia da’ bei vostri occhi, nel pensier vaneggia, quello sperando ch’ancor non volete, ciò è saziarsi, e, come voi vedete, di mirarvi focosa, vi vagheggia. E com’è stolto il mio vago pensiero! Là ond’io credo refrigerio avere, accese fiamme attingo a mill’a mille; ma come cuocan non sento, nel vero, mentre egli avvien ch’io vi possa vedere: ma poi, partito, m’ardon le faville. LVIII Amor, se questa donna non s’infinge, la mia speranza al suo termine viene, perciò che ogni volta ch’egli avviene che tu o forza di destin mi spinge dov’ella sia, così ’l viso dipinge di pallidezza subita e non tiene le luci ferme, ma di desio piene ora ver me l’allarga ed or le stringe; e sì vinta si mostra dai sospiri, che ’n vista par che sol prieghi per pace, contenta ch’io in tale atto la miri. Io che farò, che nella tua fornace ardo, premuto da mille desiri? Non arderò, poi veggio che le piace? LIX Non deve alcuno, per pena soffrire, quanto che ’l tempo paia lungo o sia, gittar del tutto la speranza via o stoltamente cercar di morire: ché un’ora sola può sopravvenire, la qual discaccia ogni fortuna ria e sì consola altrui, che l’omo oblia danno e dolor e fatica e martire. Ed io el so, el qual già lungamente chiesi mercé con doloroso pianto agli occhi bei, che già fur dispiatati; non sperando ciò, subitamente Amor i mie’ suspir rivolse in canto, e sento la letizia de’ beati. LX Chi che s’aspetti con piacer i fiori e di veder le piante rivestire e per le selve gli uccelletti udire cantando forse i lor più caldi amori, io non son quel; ma, com’io sento fuori zefiro e veggio il bel tempo venire, così m’attristo, e parmi allor sentire nel petto un duol, il qual par che m’accuori. Ed è di questo Baia la cagione, la qual invita sì col suo diletto colei che là sen porta la mia pace, che non mel fa alcun’altra stagione; e che io vadia là mi è interdetto da lei, che può di me quel che le piace. |