Themabewertung:
  • 0 Bewertung(en) - 0 im Durchschnitt
  • 1
  • 2
  • 3
  • 4
  • 5
Rime 101 - 120 (20)
#1
CI.

Ombre, in cui spesso il mio sol vibra e spiega
suoi raggi, e talor parla e talor ride
e dolcemente me da me divide
e i vaghi e lievi spirti prende e lega,

mentre venir tra voi non mi si niega,
non curo, Amor se m’arde o se m’ancide:
ché ‘n queste chiuse valli e sole e fide
ogni mia pena e morte ben s’impiega.

Sento una voce fuor dei verdi rami
dir: — sì leggiadra donna e sì gentile
esser non pò, che non gradisca et ami .—

Onde ‘l superno re, devoto, umile
prego, non tosto in ciel la si richiami:
ch’io sarei cieco, e ‘l mondo oscuro e vile.

CII.

Fiume, onde armato il mio buon vicin bebbe,
quando del gorgo e de la destra riva
fugò lo stuol di Sparta, che veniva
di quel cercando, che trovar gl’increbbe,

qual ti fe’ dono e quant’onor t’accrebbe
quel dì, che ‘l corso tuo leggiadra e schiva
vincea Madonna, e ‘n contro a te saliva
col sol, ch’a lei mirando invidia n’ebbe,

e d’un oscuro nembo ricoperse
la ricca navicella d’ogn’intorno,
che di ventosa pioggia la consperse.

Ma poi, come temesse infamia e scorno
di tal vendetta, il ciel turbato aperse,
rendendo a Teti chiaro e puro il giorno.

CIII.

Se voi sapete che ‘l morir ne doglia,
però che da noi stessi ne diparte,
sapete ond’è, che, quand’io sto in disparte
di Madonna, mi preme ultima doglia.

Ella è l’alma di me, ch’ogni sua voglia
ne fa, sì come donna in serva parte:
io, che lei seguo, in altro non ho parte,
che ‘n questa grave e frale e nuda spoglia.

E poi che non pote uom senza lo spirto
tenersi in vita, ognior ch’io le son lunge,
morte m’assale, ond’i’ m’agghiaccio e torpo.

Vero è, ch’un crin di lei negletto et irto
ch’io miri, o l’ombra pur del suo bel corpo,
Trifon mio caro, a me mi ricongiunge.

CIV.

Molza, che fa la donna tua, che tanto
ti piacque oltra misura? e fu ben degno,
poi che sì chiaro e sì felice ingegno
veste di sì leggiadro e sì bel manto.

Tienti ella per costume in doglia e pianto
mai sempre, onde ti sia la vita a sdegno?
O pur talor ti mostra un picciol segno,
che le ‘ncresca del tuo languir cotanto?

Che detta il mio collega, il qual n’ha mostro
col suo dir grave e pien d’antica usanza
sì come a quel d’Arpin si pò gir presso?

Che scrivi tu, del cui purgato inchiostro
già l’uno e l’altro stil molto s’avanza?
Star neghittoso a te non è concesso.

CV.

Se la più dura quercia, che l’alpe aggia,
v’avesse partorita, e le più infeste
tigri Ircane nodrita, anco devreste
non essermi sì fera e sì selvaggia.

Lasso, ben fu poco aveduta e saggia
l’alma, che di riposo in sì moleste
cure si pose, e le mie vele preste
girò dal porto a tempestosa piaggia.

Altro da indi in qua, che pene e guai,
non fu meco un sol giorno, et onta e strazio
e lagrime, che ‘l cor profondo invia.

Né sarà per inanzi, e se pur fia,
non fia per tempo: ch’i’ son, Donna, omai
di viver, non che d’altro, stanco e sazio

CVI.

Per far tosto di me polvere et ombra,
non v’hann’uopo erbe, Donna, in Ponto colte:
tenete pur le luci in sé raccolte,
mostrandovi d’amor e pietà sgombra.

L’alma, cui grave duol dì e notte ingombra,
non par omai che più conforto ascolte,
misera, e le speranze vane e stolte
del cor, già stanco in aspettando, sgombra.

Breve spazio che dure il vostro orgoglio,
avrà fin la mia vita, e non men’ pento:
non viver pria, che sempre languir, voglio.

Morte, che tronca lungo aspro tormento,
è riposo, e chiunque a suo cordoglio
si toglie per morir, moia contento.

CVII.

Sì levemente in ramo alpino fronda
non è mossa dal vento o spica molle
in colto e verde poggio o nebbia in colle
o vaga nel ciel nube e nel mar onda,

come sotto bel velo e treccia bionda
in picciol tempo un cor si dona e tolle,
e disvorrà quel che più ch’altro volle,
e di speranze e di sospetti abonda.

Gela, suda, chier pace e move guerra:
nostra pena, Signor, che noi legasti
a così grave e duro giogo in terra.

Se non che sofferenza ne donasti;
con la qual chi le porte al dolor serra,
pur vive, e par che prova altra non basti.

CVIII.

Tanto è ch’assenzo e fele e rodo e suggo,
ch’omai di lor mi pasco e mi nodrisco,
e son sì avezzo al foco, ond’io mi struggo,
che volontariamente ardo e languisco.

E se del carcer tuo pur talor fuggo,
per fuggir da la morte, e tanto ardisco,
tosto ne piango et a pregion rifuggo,
Amor, più dura, in pena del mio risco.

E fo come augellin, che si fatica
per uscir de la rete, ov’egli è colto;
ma quanto più si scuote, e più s’intrica.

Tal fu mia stella il dì, che nel bel volto
mirai primier de l’aspra mia nemica,
ch’a me tutt’altro e più me stesso ha tolto.

CIX.

La nostra e di Giesù nemica gente,
ch’or lieta, come fosse un picciol varco,
l’Istro passando, in parte ha l’odio scarco
sovra quei, che la fer già sì dolente;

di cui trema il Tedesco, e ‘n van si pente,
ch’al ferro corse pigro, a l’oro parco,
e vede incontro a sé riteso l’arco,
c’ha Rodo e l’Ungheria piagate e spente;

tu, che ne sembri Dio, raffrena, e doma
l’empio furor con la tua santa spada,
sgombrando ‘l mondo di sì grave oltraggio,

e noi di tema, che non pera e cada
sopra queste Lamagna, Italia e Roma:
e direnti Clemente e forte e saggio.

CX.

Da torvi agli occhi miei s’a voi diede ale
fortuna ria, cui del mio bene increbbe,
di levarvi al penser forza non ebbe,
ch’è con voi sempre, al volar vostro equale.

Questi vi mira quanto sete e quale,
e se ‘l poteste udir, vi conterebbe
di me, degli altri vostri, e ne devrebbe
valer, se vero amor suo pregio vale.

Ché poi che Pisa n’ha disciolti e privi
di vostra compagnia, sem fatti quasi
selve senz’ombra, o senza corso rivi.

Pochi degli onor tuoi ti son rimasi,
Padova mia; che i più son translati ivi
col buon Ridolfo nostro, onde fiorivi.

CXI.

Pon Febo mano a la tua nobil arte,
ai sughi, a l’erbe, e quel dolce soggiorno
de’ miei pensier, cui piovve entro e d’intorno
quanta beltà fra mille il ciel comparte,

ch’or langue e va mancando a parte a parte,
risana e serba: a te fia grave scorno,
se così cara donna anzi ‘l suo giorno
dal mondo, ch’ella onora, si diparte.

Torna col chiaro sguardo, ch’è ‘l mio sole,
la guancia, che l’affanno ha scolorita,
a far seren, qual pria, de le nostre ugge.

E sì darai tu scampo a la mia vita,
che si consuma in lei, né meco vòle
sol un dì sovrastar, s’ella sen’ fugge

CXII.

Tenace e saldo, e non par che m’aggrave,
è ‘l nodo, onde mi strinse a voi la Parca,
che fila il viver nostro; e ben è parca
tutto lo stame far chiaro e soave.

Ché qual avinta dietro a ricca nave
solca talor la sua picciola barca
l’Egeo turbato, e di par seco il varca,
e procella sostien noiosa e grave,

tal io, mentre fra via l’onde avolgendo
vi percosse repente aspra tempesta,
passai quel mar con travagliato legno;

ma poi fortuna più non v’è molesta,
corro sedato voi lieta seguendo,
fatale e prezioso mio ritegno.

CXIII.

Mentre navi e cavalli e schiere armate,
che ‘l ministro di Dio sì giustamente
move a ripor la misera e dolente
Italia e la sua Roma in libertate,

son cura de la vostra alta pietate,
io vo, Signor, pensando assai sovente
cose, ond’io queti un desiderio ardente
di farmi conto a più d’un’altra etate.

Dal vulgo intanto m’allontano e celo,
là dov’i’ leggo e scrivo, e ‘n bel soggiorno
partendo l’ore fo picciol guadagno.

Peso grave non ho dentro o d’intorno;
cerco piacer a Lui, che regge il cielo:
di duo mi lodo, e di nessun mi lagno.

CXIV.

Arsi, Bernardo, in foco chiaro e lento
molt’anni assai felice, e, se ‘l turbato
regno d’Amor non ha felice stato,
tennimi almen di lui pago e contento.

Poi, per dar le mie vele a miglior vento,
quando lume del ciel mi s’è mostrato,
scintomi del bel viso in sen portato,
sparsi col piè la fiamma, e non men’ pento.

Ma l’imagine sua dolente e schiva
m’è sempre inanzi, e preme il cor sì forte,
ch’io son di Lete omai presso a la riva.

S’io ‘l varcherò, farai tu che si scriva
sovra ‘l mio sasso, com’io venni a morte,
togliendomi ad Amor, mentr’io fuggiva.
CXV.

Se de le mie ricchezze care e tante
e sì guardate, ond’io buon tempo vissi
di mia sorte contento, e meco dissi:
— Nessun vive di me più lieto amante, —

io stesso mi disarmo, e queste piante,
avezze a gir pur là, dov’io scoprissi
quegli occhi vaghi e l’armonia sentissi
de le parole sì soavi e sante,

lungi da lei di mio voler sen’ vanno,
lasso, chi mi darà, Bernardo, aita?
O chi m’acqueterà, quand’io m’affanno?

Morrommi, e tu dirai, mia fine udita:
— Questi, per non veder il suo gran danno,
lasciata la sua donna, uscìo di vita .—

CXVI.

Signor, che parti e tempri gli elementi,
e ‘l sole e l’altre stelle e ‘l mondo reggi,
et or col freno tuo santo correggi
il lungo error de le mie voglie ardenti,

non lasciar la mia guardia e non s’allenti
la tua pietà, perch’io tolto a le leggi
m’abbia d’Amor, e disturbato i seggi
in ch’ei di me regnava, alti e lucenti.

Ché, come audace lupo suol degli agni
stretti nel chiuso lor, così costui
ritenta far di me l’usata preda.

Acciò pur dunque in danno i miei guadagni
non torni e ‘l lume tuo spegner si creda,
con fermo piè dipartirmi da lui.

CXVII.

Che gioverà da l’alma avere scosso
con tanta pena il giogo, che la presse
lunga stagion, s’Amor con quelle stesse
funi il rilega, et io fuggir non posso?

Meglio era che lo strale, onde percosso
fui da’ begli occhi, ancor morto m’avesse,
che fosse il braccio tuo, ch’alor mi resse,
da me, superno Padre, unqua rimosso.

Ma poi ch’errante e cieco mi guidasti,
Tu sentiero e Tu luce, ora ti degna
voler, che ciò far vano altri non basti,

e lei sì del tuo foco incendi e segna,
che poggiando in desir leggiadri e casti
rivoli a te, quando ‘l suo dì ne vegna

CXVIII.

Signor, che per giovar sei Giove detto,
e sempre offeso giamai non offendi,
da quel folle tiranno or mi difendi,
del qual fui cotant’anni e sì suggetto.

Se, per donarmi a te, chiaro disdetto
ho fatto a lui, sovra ‘l mio scampo intendi,
e perché ‘l fallo mio tutto s’ammendi,
col tuo favor tranquilla il mio sospetto.

Di riaprirsi Amor questo rinchiuso
fianco, e raccender la sua fiamma spenta
cerca: tu dammi, ond’ei resti deluso.

Ché l’ardir suo conosco e l’antico uso,
e so come scacciato al cor s’aventa,
e dentro v’è quando ne pare excluso.

CXIX.

Uscito fuor de la prigion trilustre
e deposto de l’alma il grave incarco,
salir già mi parea, spedito e scarco,
per la strada d’onor montana, illustre,

quand’ecco Amor, ch’al suo calle palustre
mi richiama, e lusinga, e mostra il varco,
né di pregar, né di turbar è parco,
per rimenarmi a le lasciate lustre.

Ond’io, Padre celeste, a te mi volgo:
tu l’alta via m’apristi, e tu la sgombra
de le costui, contra ‘l mio gir, insidie.

Mentre da questa carne non mi sciolgo,
scaccia da me sì col tuo sole ogni ombra,
che ‘l bel preso camin nulla m’invidie

CXX.

Signor del ciel, s’alcun prego ti move,
volgi a me gli occhi, questo solo, e poi,
s’io ‘l vaglio, per pietà coi raggi tuoi
porgi soccorso a l’alma e forze nove;

tal ch’Amor questa volta indarno prove
tornarmi ai già disciolti lacci suoi.
Io chiamo te, ch’assecurar mi puoi:
solo in te speme aver posta mi giove.

Gran tempo fui sott’esso preso e morto;
or poco o molto a te libero viva,
e tu mi guida al fin, tardi o per tempo.

Se m’ha falso piacer in mare scorto,
vero di ciò dolor mi fermi a riva:
non è da vaneggiar omai più tempo.
Zitieren


Gehe zu:


Benutzer, die gerade dieses Thema anschauen: 1 Gast/Gäste
Forenfarbe auswählen: