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LXI.

Colei, che guerra a’ miei pensieri indice,
e io pur pace e null’altro le cheggio,
rinforzando la speme, ond’io vaneggio,
dolce mia vaga angelica beatrice,

or in forma di cigno, or di fenice,
s’io parlo, scrivo, penso, vado o seggio,
m’è sempre inanzi, e lei sì bella veggio,
che piacer d’altra vista non m’allice.

Per la via, che ‘l gran Tosco amando corse,
dice non ir; che ‘ndarno oggi si brama
la vena, che del suo bel lauro sorse.

Ma chi poria tacer, quand’altri il chiama
sì dolcemente? Amor mi spinse e torse:
duro se punge, e duro se richiama.

LXII.

Se ne’ monti Rifei sempre non piove,
né ciascun giorno è ‘l mar Egeo turbato,
né l’Ebro o l’Istro o la Tana gelato,
né Borea i faggi ognior sferza e commove,

voi perché pur mai sempre di più nove
lagrime avete il bel volto bagnato?
né parte o torna sol, che l’ostinato
pianto con voi non lasci e non ritrove?

Il signor, che piangete e morte ha tolto,
ride del mondo e dice: — Or di me vive
il meglio e ‘l più, che dianzi era sepolto.

Ma tu di pace a che per me ti prive,
o mia fedel, che ‘n pace alta raccolto
godo fra l’alme benedette e dive? —

LXIII.

Certo ben mi poss’io dir pago omai
d’ogni tuo oltraggio, Amor, e s’a colparte
distretto ‘l verso o le prose consparte
ho pur talora, or me ne pento assai.

Ché le note, onde tu ricco mi fai,
di quella, che dal vulgo mi diparte,
ancor mai non veduta, e scorge in parte
ove tu scorto pochi o nessun hai,

son tali, che quetar ben mille offesi
possono e di mille alme scacciar fora
desir vili e ‘ngombrar d’alti e cortesi.

Pensar quinci si può, qual fia quell’ora,
ch’i’ vedrò gli occhi, ch’or mi son contesi,
e la voce udirò, che Brescia onora.

LXIV.

O d’ogni mio penser ultimo segno,
vergine veramente unica e sola,
di cui più caro e prezioso pegno
Amor non ha, quanto saetta e vola,

di quella chiara fronte, che m’invola
già pur pensando e ‘n parte è ‘l mio sostegno,
di quel bel ragionar, pien d’alto ingegno,
vedrò mai raggio, udirò mai parola?

Quando ebbe più tal mostro umana vita:
bellezze non vedute arder un core,
e ‘mpiagarlo armonia non anco udita?

Lasso, non so; ma poi che ‘l face Amore,
là ‘nd’i’ ho già l’alma accesa, onde ferita,
ponga pietà, quanto ha ‘l ciel posto onore.

LXVI.

Lieta e chiusa contrada, ov’io m’involo
al vulgo e meco vivo e meco albergo,
chi mi t’invidia, or ch’i Gemelli a tergo
lasciando scalda Febo il nostro polo?

Rade volte in te sento ira né duolo,
né gli occhi al ciel sì spesso e le voglie ergo,
né tante carte altrove aduno e vergo,
per levarmi talor, s’io posso, a volo.

Quanto sia dolce un solitario stato
tu m’insegnasti, e quanto aver la mente
di cure scarca e di sospetti sgombra.

O cara selva e fiumicello amato,
cangiar potess’io il mar e ‘l lito ardente
con le vostre fredd’acque e la verd’ombra.

LXVII.

Né tigre sé vedendo orbata e sola
corre sì leve dietro al caro pegno,
né d’arco stral va sì veloce al segno,
come la nostra vita al suo fin vola.

Ma poi, Gasparro mio, che pur s’invola
talor a morte un pellegrino ingegno,
fate sia contra lei vostro ritegno
quel, ch’Amor v’insegnò ne la sua scola,

spiegando in rime nove antico foco,
e i doni di colei, celesti e rari,
che temprò con piacer le vostre doglie;

tal che poi sempre ogni abitato loco
parli d’ambo duo voi, né gli anni avari
se ne portin giamai più che le spoglie.

LXVIII.

— Alma, se stata fossi a pieno accorta,
quando cademmo a l’amorosa impresa,
non ti saresti così tosto resa
a que’ begli occhi e crudi, che t’han morta .—

— Io fui dal novo e gran diletto scorta,
e da la luce inusitata offesa:
ma non erano già la tua difesa
sospiri e guancia sbigottita e smorta .—

— Altro non si potea, fuor che piangendo
chieder mercé; questo fec’io dapoi
sempre, né men però languisco et ardo .—

— Gir devevi lontan dai guerrier tuoi,
stolto, e non sofferir più d’uno sguardo:
ché non si vince Amor, se non fuggendo .—

LXIX.

Cola, mentre voi sete in fresca parte,
là dove il chiaro e gran Benaco stagna,
qui dentro m’arde e spesso di fuor bagna
Amor, che mai da me non si diparte;

e la mia donna, ch’ogni studio et arte
ha di natura in sé, sì mi scompagna
d’ogni altro obietto, che talor si lagna
del sonno il cor, che sol da sé la parte.

Così conven ch’io pensi e parli e scriva
quel, ch’un bel viso ad or ad or m’insegna,
e ‘n foco e ‘n pianto e come ei vuol, mi viva:

perché veggiate in me, sì come avegna
di quel, che Roma ne’ teatri udiva,
che ragion e consiglio Amor non degna.

LXX.

Poi che ‘l vostr’alto ingegno e quel celeste
ragionar e tacer pudico e saggio
da far cortese un uom fero e selvaggio,
e i leggiadri atti e l’accoglienze oneste

vi rendon tanto spazio sopra queste
forme umane excellenti, ch’io non aggio
stile da colorir ben picciol raggio
de le virtuti al vostro animo preste,

se vi s’arroge il corpo, in cui beltade
poser, quanta pon dar, benigne stelle,
con quali rime assai potrò lodarvi?

O de le meraviglie a nostra etade
la maggior di gran lunga, in onorarvi
si stancherian le tre lingue più belle.

LXXI.

Se ‘n dir la vostra angelica bellezza,
neve, or, perle, rubin, due stelle, un sole,
subietto abonda e mancano parole,
a chi sua fama e veritate apprezza,

quai versi agguaglieran l’alta dolcezza,
ch’ogni avaro intelletto appagar sòle
di chi v’ascolta, e l’altre tante e sole
doti de l’alma, e sua tanta ricchezza?

Colui, che nacque in su la riva d’Arno
e fece a Laura onor con la sua penna,
direbbe a sé: — tu qui giugner non pòi .—

Perché se questo stile solo accenna,
non compie l’opra e ne fa pruova indarno,
il mio diffetto ven, Donna, da voi.

LXXIV.

Frisio, che già da questa gente a quella
passando vago, e fama in ciascun lato
mercando, hai poco men cerco e girato
quanto riscalda la diurna stella,

et or per render l’alma pura e bella
al ciel, quando ‘l tuo dì ti fia segnato,
nel tuo ancor verde e più felice stato
ti chiudi in sacra e solitaria cella,

eletto ben hai tu la miglior parte,
che non ti si torrà: fossi anch’io a tale,
né mi torcesse empia vaghezza i passi.

Contra la qual poi ch’altro non mi vale,
prega ‘l Signor per me tu, che mi lassi,
senza te, frale e sconsolata parte.

LXXV.

Se la via da curar gl’infermi hai mostro
al mondo, che giacea pien d’alto errore,
tu, Febo, alor quando ‘l secol migliore
lasciò le genti al duro viver nostro,

al buon Lombardo, il cui lodato inchiostro
rende al moderno stil l’antico onore,
soccorri, che già presso a l’ultime ore
vede la mesta ripa e ‘l nero chiostro.

Sì dirà poi, sanato, ad ora ad ora,
come Delo fermasti vaga e come
Fiton morio mercé del tuo forte arco,

e tutto quel, perché de le tue chiome
è l’arbor sempre verde amico incarco,
spiegherà in versi, e lodera’ ‘l tu ancora.

LXXVI.

Ben devria farvi onor d’eterno exempio
Napoli vostra, e ‘n mezzo al suo bel monte
scolpirvi in lieta e coronata fronte,
gir trionfando e dar i voti al tempio,

poi che l’avete a l’orgoglioso et empio
stuolo ritolta e pareggiate l’onte,
or ch’avea più la voglia e le man pronte
a far d’Italia tutta acerbo scempio.

Torceste ‘l voi, Signor, dal corso ardito
e foste tal, ch’ancor esser vorrebbe
a por di qua da l’alpe nostra il piede.

L’onda tirrena del suo sangue crebbe,
e di tronchi restò coperto il lito,
e gli augelli ne fer secure prede.

LXXVIII.

Anima, che da’ bei stellanti chiostri,
cinta de’ raggi sì del vero amore,
scendesti in terra, che fuor d’ogni errore
ten’ vai secura degli affetti nostri,

con altre voci omai, con altri inchiostri
moverò più sovente a farti onore,
poi che se’ giunta, ove fia ‘l tuo valore
in altro pregio, che le perle e gli ostri.

Dirò di lei, ch’a quella gelosia,
onde Roma miglior cadde, rassembra:
o vendetta di Dio, chi te ne oblia?

Poi seguirò, che se ben ti rimembra
d’Ercole e di Iason, questa è la via
di gir al ciel ne le terrene membra.

LXXIX.

Tosto che ‘l dolce sguardo Amor m’impetra,
forse perch’io più volentier sospiri,
parmel indi veder, che l’arco tiri
e spenda tutta in me la sua faretra.

Ma se Madonna mai tanto si spetra,
che tinta di pietà ver me si giri,
signor mio caro, alor, pur ch’io la miri,
fa me d’uom vivo una gelata pietra.

Poi com’io torni a la prima figura,
i’ no ‘l sento per me: sassel Amore,
che come veltro mi sta sempre al fianco.

Ma ‘l sangue accolto in sé da la paura
si ritien dentro e teme apparir fore:
però son io così pallido e bianco.

LXXX.

Già vago, or sovr’ogni altro orrido colle,
poi che ‘l bel viso, in cui volse mostrarsi
quanto ben qui fra noi potea trovarsi,
luce ad altro paese, a te si tolle;

dura quell’acqua e questa selce molle
fia, prima ch’io non senta al cor girarsi
la memoria del dì, quando alsi et arsi
nel bel soggiorno tuo, come ‘l ciel volle.

Por si pò ben nemica e dura sorte
fra noi talora e ‘l nostro vital lume,
romper no a l’alma il penser vivo e forte;

che, speri o tema o goda o si consume,
torna sempre a quel giorno, e le sue scorte
sono due stelle e gran desio le piume.
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