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Rime - Parte seconda (17)
#1
I

Iscinta e scalza, con le trezze avvolte,
e d’uno scoglio in altro trapassando,
conche marine da quelli spiccando,
giva la donna mia con altre molte.

E l’onde, quasi in sé tutte raccolte,
con picciol moto i bianchi piè bagnando,
innanzi si spingevan mormorando
e ritraensi iterando le volte.

E se tal volta, forse di bagnarsi
temendo, i vestimenti in su tirava,
sì ch’io vedeo più della gamba schiuso,

oh, quali avria veduto allora farsi,
chi rimirato avesse dov’io stava,
gli occhi mia vaghi di mirar più suso!

II

O dì felice, o ciel chiaro sereno,
o prati, o arbuscegli, o dolci amori,
o angeliche voci, o lieti cori,
de’ qual i’ vidi un bel giardin ripieno;

o celeste armonia, la qual seguieno
non so s’i’ dica angelichi splendori
o vergini terrene, e tra’ be’ fiori
e le piante danzando si movieno!

Chi con istile ornato e con preciso
discrivere ne potria le vedute
bellezze, omai mo’ viste fra’ mortali?

Non io, ch’esser credendo in paradiso,
muover sentii secreta virtute,
che ’l cor m’aprì con più di mille strali

III

D’oro crespi capelli ed annodati
da sé e da verde frondi e bianchi fiori,
un angelico viso e due splendori
simili a stelle, e atti non usati

veder fra noi, vezzosi e riposati,
e un cantar di più gioiosi amori
soave e lieto ben tra mille fiori
del primo tempo, insieme radunati

in un giardino nato ad un bel fonte,
pos’Amore in amare alla mia mente
libera ancora, semplice e leggera.

Né pria, dal canto desto, alza’ la fronte,
che tutte l’accerchiar subitamente
e presa a lui’ la dier, che vicin era.

IV

Levasi il sol tal volta in oriente,
senz’alcun raggio e rosso pe’ vapori;
la luna, maculata di colori
oscuri, appar men bella e men lucente;

e del cielo ne sono assai sovente
dalle nuvole tolti gli splendori;
e’ nostri lumi, vie molto minori,
per poco vento diventan niente.

Ma que’ begli occhi splendidi, ne’ quali
Amor fabrica e tempra le saette
che mi passano il core a tutte l’ore,

nebbia Né vento curan, ma son tali
quai furon sempre: due vive fiammette,
lucenti più ch’alcuno altro splendore.

V

I cape’ d’or, di verde fronde ornati,
gli occhi lucenti e l’angelico viso,
i leggiadri costumi e ’l vago riso
di questa onesta donna hanno scacciati

tutti li mia disiri, e sono in atti
di sì somma biltà qual io diviso,
ed hanno di lor fatto un paradiso
degli occhi mei, più ch’altri, innamorati.

Onde ogni altra bellezza m’è noiosa:
questa mi piace e questa vo cercando,
in questa ogni mia gioia si riposa.

Per lei sospiro e per lei vo cantando,
per lei m’aggrada la vita amorosa,
per lei salute spero disïando.

IX

Io mi credea troppo ben l’altrieri
ricoverato aver mia libertate:
rotti avea i legami ed ispezzate
le porte ed ingannati i prigionieri,

e come per salvatichi sentieri
fuggiva forte e per vie disusate;
ma la sventura, che le mia pedate
seguì, fece vani i mia pensieri.

Perciò ch’Amor, dond’io non avvisai,
vedendo mi rinchiude, e le sua armi
ver me drizzando gridò: “Tu se’ giunto!

O fuggitivo servo, ove ne vai? “
E rider, e ’l prender me e rilegarmi
e ’l darmi a’ sua ministri fu in un punto.

X

Il mar tranquillo, producer la terra
fiori ed erbette, el ciel queto girarsi,
gli uccelli più che l’usato allegrarsi,
quando fuori Eol zefiro disserra,

ho gia veduto; se ’l veder non erra,
veggio le donne belle e vaghe farsi,
e le bestie ne’ boschi accompagnarsi,
e pace e triegua farsi d’ogni guerra,

posarsi i buoi delle fatiche loro,
e bobolchi e’ pastor sotto alcuna ombra
cercare il fresco e riposarsi alquanto.

Ma io, che per amor mi discoloro,
e cui disio più che speranza ingombra,
riposare non posso tanto o quanto.

XI

S’io potessi lo specchio tenere
al cui consiglio fersi le saette,
che m’hanno il cor degli anni più di sette
passato senza alcun contasto avere,

da lui m’ingegnere’ quelle sapere
fabbricar io, e qual tempra le mette;
po’ con alquante delle più elette
vi metterei nel petto il mio piacere.

E ciò saria vedervi sospirare,
gridar mercè senza trovarla, s’io
non fussi prima di vendetta sazio.

Forse potresti ancor, donna, apparare
l’animo altero fare umile e pio,
e di non far d’altrui giocondo istrazio

XVII

I’ ho già mille penne e più stancate
scrivendo in rima ed in parlar soluto
l’angoscioso dolor, ch’ho sostenuto
lunga stagione aspettando pietate;

e, s’io non erro, assai men quantitate
quietare il mar da’ venti combattuto,
e qualunqu’alto monte avrien dovuto
muover del luogo suo, men faticate,

non che ’l cuor d’una donna: il qual niente
per lor di sua durezza s’è mutato,
ma stassi freddo come ghiaccio all’ombra.

Ond’io mi struggo, e dolorosamente
piango la mia fortuna disperato;
Né ’l cuor per tutto questo non mi sgombra.

XIX

Le nevi sono e le piogge cessate,
l’ira del ciel, le nebbie e le freddure;
i fior, le frondi e le fresche verdure,
i lieti giorni e le feste tornate.

Le donne son più che l’usato ornate,
e tutte quasi Amor le creature
trastulla e mena per le sue pasture,
nel nuovo tempo, credo, innamorate.

Per ch’io conosco ciò ch’io non vorrei:
a Baia ’n seno esser colei invita
che muove e gira tutti e disir miei.

Or dormiss’io infino alla reddita,
o girmene potessi là con lei,
o non saper ch’ella vi fosse ita

XX

Per certo, quando il ciel con lieto aspetto
riguarda ver la stagïon novella,
nulla contrada ha ’l mondo così bella
Né dove più si prenda di diletto.

Quivi Amor regna senz’alcun sospetto,
o ’l ciel che ’l faccia o singulare stella;
Venere credo poi venisse in quella,
del mare uscendo, come in luogo eletto.

Quivi le piagge, la marina, i prati
son pien di donne e di leggiadri amanti,
e ciò che piace par vi si conceda.

Quivi son feste e dilettosi canti;
quivi si mettono amorosi agguati,
Né mai senza gioir si leva preda.

XXII

I’ vo, sonetto, i mie’ pensier fuggendo,
come colui che se li trova rei,
però che sempre parlan di colei
che la mia morte vuole e va chiedendo,

e sì mi va, là dov’io vo, seguendo
ad occuparmi piu eh io non vorrei:
Né giungon pria, che ’l bel viso di lei
col mio rimemorar vo dipingendo.

E simil fan le liete feste avute
l’amor, la grazia, el piacer e ’l diletto,
e lei pongon dinnanzi alla mia mente:

le qual, come conosco esser perdute,
né mai di rivederle più aspetto,
pianti e sospir si fan subitamente

XXIV

I’ solea spesso ragionar d’amore
e talora cantar del vago viso,
del qual fatto s’avea suo paradiso,
come di luogo eletto, il mio signore.

Or è il mio canto rivolto in dolore
e trasmutato in pianto il dolce riso,
po’ che per morte da no’ s’è diviso
e terra è divenuto il suo splendore.

Né sarà mai ch’alla mente mi torni
quella imagine bella, che conforto
porger solea a ciascun mio disire,

che io non pianga e maladichi i giorni
che tanto m’hanno in questa vita scorto,
ch’io sento del mio ben fatto martire.

XXVIII

O ch’Amor sia, o sia lucida stella,
te nel mio meditar forma sovente
leggiadra, vaga, splendida e piacente,
qual viva esser solevi, e così bella.

Quivi con teco l’anima favella,
ode e risponde, e tanta gioia sente,
che la gloria del ciel crede niente,
quantunque grande, per rispetto a quella.

Ma, com’ la viva imagine si fugge
e rompesi il pensier che la tenea,
e che ’n terra se’ cener mi ricorda,

torna il dolor che mi consuma e strugge,
e prego te che la morte mi dea
di te seguir: deh, non esser niù sorda!

XXIX

Rotto è il martello, rott’è quella ’ncugge
che solean fabbricar le dolce rime,
e rotti i folli, rotte son le lime,
e la fucina tutta si distrugge;

il foco più nel suo carbon non rugge,
che riscaldava le materie prime,
di che formando l’opre non sublime,
cantai del falso amor cui ragion fugge.

E però cessa la mia vaga penna
di recar fole con parole vane,
e da così fatta arte si rimane.

Ma della fior soprana di soprane,
che vince l’altre come sauro brenna,
pur tratterò io laude alta e perenna.

XXX

Lasso! s’i’ mi lamento io n’ho ben donde,
ch’io corsi e corro sempre gli anni rei,
e però vo gridando: “Omei, omei “
per piani e per montagne e sopra l’onde.

E quando io mi ripenso i’ non so donde
mi debba riposar gli stanchi piei,
sì mi menan girando i pensier miei
più forte assai che ’l vento non fa fronde.

I’ non so per qual cielo o per qual fato,
o qual fortuna o qual distinto in terra,
o per qual stella mi fosse ordinato

ch’io non dovessi mai uscir di guerra,
e povertà mi stesse sempre allato,
come fa, che da me mai non si sferra.

XXXII

Dante Alighieri son, Minerva oscura
d’intelligenza e d’arte, nel cui ingegno
l’eleganza materna aggiunse al segno
che si tien gran miracol di natura.

L’alta mia fantasia, pronta e sicura,
passò il tartareo e poi ’l celeste regno,
e ’l nobil mio volume feci degno
di temporale e spiritual lettura.

Fiorenza magna terra ebbi per madre,
anzi matregna, e io piatoso figlio,
grazia di lingue scellerate e ladre.

Ravenna fummi albergo nel mio esiglio:
ed ella ha il corpo, l’alma ha il sommo Padre,
presso a cui invidia non vince consiglio.
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