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Rime - Parte prima 101 - 120 (17)
#1
CI

“Che cerchi, stolto? che dintorno miri?
cenere sparta son le membra in ch’io
piacqui già tanto al tuo caldo desio
e mossi il petto ai pietosi desiri.

Perché non lievi gli occhi agli alti giri?
Io dico al ciel, anz’al regno di Dio,
dove più bel che mai il viso mio
veder potrai, e pien de’ tuoi desiri”.

Così con meco talora ragiona
la bella donna, vedendo cercarmi
quel che giammai quaggiù veder non deggio.

Ma come ravveduto m’abbandona,
piangendo penso come qui impennarmi
possa, e volar al suo beato seggio.

CII

Dante, se tu nell’amorosa spera,
com’io credo, dimori riguardando
la bella Bice, la qual già cantando
altra volta ti trasse là dov’era:

se per cambiar fallace vita a vera
amor non se n’oblia, io ti domando
per lei, di grazia, ciò che, contemplando,
a far ti fia assai cosa leggiera.

Io so che, infra l’altre anime liete
del terzo ciel, la mia Fiammetta vede
l’affanno mio dopo la sua partita:

pregala, se ’l gustar dolce di Lete
non la m’ha tolta, in luogo di merzede,
a sé m’impetri tosto la salita.

CIII

Era sereno il ciel, di stelle adorno,
e i venti tutti nelle lor caverne
posavono, e le nuvolette alterne
resolute eron tutte intorno intorno,

quand’una fiamma più chiara che ’l giorno,
rimirand’io alle cose superne,
veder mi parve per le strade etterne
volando fare al suo loco ritorno;

e di quella ver me nascer parole,
le quai dicien: “Chi meco esser desia,
benign’esser convien ed ubbidiente

e d’umiltà vestito; e, s’altro vuole
cammin tener, giammai meco non fia
nel sacro regno della lieta gente”.

CIV

Le rime, le quai già fece sonore
la voce giovinil ne’ vaghi orecchi,
e che movien de’ mia pensier parecchi
a quel desio che m’infiammava il core,

scrivendole come dettava Amore,
han fatto chiocce gli anni gravi e vecchi,
poscia che morte ruppe quelli specchi,
da’ quai forza prendea lo mio vigore.

come il viso angelico tornossi
al regno là, dond’era a noi venuto
per farne fede dell’altrui bellezza,

e i passi miei di drieto a lui fur mossi,
né rima poi né verso m’è piaciuto,
né altro che il seguir la sua altezza

CV

D’Omero non poté ’l celeste ingegno
a pien mostrar di Elèna ’l vago riso,
né Zeusi, dopo, l’alt’e bel diviso,
quantunque avesse di molte il disegno:

e però contro a me stesso non sdegno,
se ’l glorioso ben di paradiso
scriver non so, né l’angelico viso,
c’ha ’l mio cor seco nel celeste regno.

Ma chi desia veder quella bellezza,
che sola tenne in la vita mortale,
d’uom non aspetti alcun dimostramento,

ma di sacra virtù s’impenni l’ale
e su sen voli in la suprema altezza:
lì la vedrà, e rimarrà contento.

CVI

Sì acces’e fervente è il mio desio
di seguitar colei, che quivi in terra
con il suo altero sdegno mi fé guerra
infin allor ch’al ciel se ne salio,

che, non ch’altri, ma me metto in oblio:
e parmi nel pensier, che sovente erra,
quella gravezza perder che m’atterra,
e quasi uccel levarmi verso Dio:

e trapassar le spere, e pervenire
davanti al divin trono, infra i beati,
e lei veder, che seguirla mi face,

sì bella, ch’io non so poscia ridire,
quando ne’ luoghi lor son ritornati
gli spiriti, che van cercando pace

CVII

Mentre sperai e l’uno e l’altro collo
trascender di Parnaso e ber dell’onde
del castalio fonte e delle fronde,
che già più ch’altre piacquero ad Appollo,

adornarmi le tempie, umil rampollo
de’ dicitori antichi, alle gioconde
rime mi diedi; e ben che men profonde
fosser, cantane in stil leggiero e sollo.

Ma poscia che ’l cammino aspro e selvaggio,
e gli anni miei già faticati e bianchi
tolser la speme del mio pervenire,

vinto, lasciai la speme del viaggio,
le rime e i versi e i miei pensieri stanchi,
ond’or non so, com’io solea già, dire.

CVIII

Il vivo fonte di Parnaso e quelle
frondi, che furn’ad Appollo più care,
m’ha fatto lungo tempo Amor cercare
driet’alla guida delle vaghe stelle,

che fra l’ombre salvatiche le belle
Muse già fer molte volte cantare;
né m’ha voluto fortuna prestare
d’esser potuto pervenire ad elle.

Credo n’ha colpa il mio debil ingegno,
ch’alzar non può a vol sì alto l’ale,
e non ha già studio o tempo perduto.

Darò dunque riposo all’alma frale,
e mi dorrò di non aver potuto
di quelle farmi, faticando, degno.


CIX

Dura cosa è ed orribile assai
la morte ad aspettare e paurosa,
ma così certa ed infallibil cosa
né fu né è né, credo, sarà mai;

e ’l corso della vita è breve, ch’hai,
e volger non si può né dargli posa;
né qui si vede cosa sì gioiosa,
che ’l suo fine non sia lagrime e guai.

Dunque perché con operar valore
non c’ingegniamo di stender la fama
e con quella far lunghi e brevi giorni?

Questa ne dà, questa ne serva onore,
questa ne lieva degli anni la squama,
questa ne fa di lunga vita adorni.

CX

Assai sem raggirati in alto mare,
e quanto possan gli empiti de’ venti,
l’onde commosse ed i fier accidenti,
provat’abbiamo; né già il navicare

alcun segno, con vela o con vogare,
scampati ci ha dai perigli eminenti
fra’ duri scogli e le secche latenti,
ma sol Colui che, ciò che vuol, può fare.

Tempo è omai da reducersi in porto
e l’ancore fermare a quella pietra,
che del tempio congiunse e dua parieti;

quivi aspettar el fin del viver corto
nell’amor di Colui, da cui s’impetra
con umiltà la vita de’ quieti.

CXI

Quante fiate indrieto mi rimiro,
m’accorgo e veggio che io ho trapassato,
forse perduto e male adoperato,
seguendo in compiacermi alcun desiro,

tante con meco dolente m’adiro,
sentendo quel, ch’a tutti sol n’è dato,
esser così fuggito, anzi cacciato
da me, che ora indarno ne sospiro.

E so s’è conceduto che’ mia danni
ristorar possa ancor di bel soggiorno
in questa vita labile e meschina?

Perché passato è l’arco de’ mia anni,
e ritornar non posso al primo giorno,
e l’ultimo già veggio s’avvicina.

CXII

Fuggesi il tempo, e ’l misero dolente,
a cui si presta ad acquistar virtute,
fama perenne ed etterna salute,
el danno irreparabile non sente;

ma neghittoso forma nella mente
cagion all’ozio e scusa alle perdute
doti, le quai poi tardi conosciute
piange, tapino, e senza pro si pente.

Surge col sol la piccola formica
nel tempo estivo, e si raguna l’esca,
di che nel fredd’avverso si nutrica.

Al negligente sempre par ch’incresca:
onde nel verno muore, o ch’ei mendica,
e spesse volte senza lenza pesca.

CXIII

Fassi davanti a noi il Sommo Bene
col gremb’aperto e pien de’ suoi tesori,
ed, acciò che ciascuna se n’innamori,
a mostrar quali e’ son sovente viene;

e di signore amico ne diviene,
s’aprir vogliangli i nostri freddi cuori,
e spira quinci e quindi e santi ardori
a raffrenar le colpe e tor le pene.

E noi, protervi ritrosi e selvaggi,
ci ritraiam indrieto, ed al fallace
ben temporale ostinati crediamo:

dal qual menati per falsi viaggi,
perdian, miseri noi, l’etterna pace,
e nel foco perpetuo caggiamo.

CXIV

Volgiti, spirto affaticato, omai,
volgiti, e vedi dove sei trascorso,
del desio folle seguitando ’l corso,
e col piè nella fossa ti vedrai.

Prima che caggi, svegliati; che fai?
torna a Colui, il quale il ver soccorso
a chi vuol presta, e libera dal morso
della morte dolente, alla qual vai.

Ritorna a Lui, e l’ultimo tuo tempo
concedi almeno al suo piacer, piangendo
l’opere mal commesse nel passato.

Né ti spaventi il non andar per tempo,
ch’Ei ti riceverà, ver te facendo
quel che già fece all’ultimo locato

CXV

O Sol, ch’allumi l’un’e l’altra vita,
e dentro al pugno tuo richiudi il mondo,
poi non ti parve grave il mortal pondo
per ritornarci nella via smarrita,

se pietos’orazion fu mai udita,
ch’al ciel venisse a te da questo fondo,
a me, che ’l mio bisogno non ascondo,
presta i benign’orecchi e sì m’aita.

Io ho, seguendo gli terren diletti
e i tuo’ comandamenti non curando,
offeso spesso la tua maiestade:

or mi ravveggio, come tu permetti,
e di tuo corte mi conosco in bando;
però, di grazia, addomando pietade.

CXVI

O giorioso Re, che ’l ciel governi
con etterna ragione e de’ mortali
sol conosci le menti, e quant’e quali
e nostri pensier sien chiaro discerni,

deh volgiti ver me, se tu non sperni
gli umili prieghi, e l’affezion carnali
da me rimuovi e sì m’impenna l’ali,
che io possa volare a’ beni etterni.

Lieva dagli occhi mia l’oscuro velo
che veder non mi lascia lo mio errore,
e me sviluppa dal piacer fallace;

caccia dal petto mio il mortal gelo,
e quell’accendi sì del tuo valore,
che io di qui ne vegna alla tua pace


CXVII

Non treccia d’oro, non d’occhi vaghezza,
non costume real, non leggiadria,
non giovanett’età, non melodia,
non angelico aspetto né bellezza

poté tirar dalla sovrana altezza
il Re del cielo in questa vita ria
ad incarnar in te, dolce Maria,
Madre di grazia e specchio d’allegrezza;

ma l’umilità tua, la qual fu tanta,
che poté romper ogn’antico sdegno
tra Dio e noi, e far il ciel aprire.

Quella ne presta adunque, Madre santa,
sì che possiamo al tuo beato regno,
seguendo lei devoti, ancor salire.

CXVIII

O luce etterna, o stella mattutina,
la qual chiuder non può Borea né Austro,
della nave di Pier timone, e plaustro
del biforme grifon, che la divina

città lasciò per farsi medicina,
pria sé chiudendo nel virginal claustro,
del mal che già commise il protoplaustro
disubbidendo in nostra e sua rovina;

volgi gli occhi pietosi allo mio stato,
Donna del cielo, e non m’aver a sdegno,
perch’io sia di peccati grave e brutto.

Io spero in te, e ’n te sempr’ho sperato:
prega per me, ed esser mi fa degno
di veder teco il tuo beato frutto.


CXIX

O Regina degli angioli, o Maria,
ch’adorni il ciel con tuoi lieti sembianti,
e stella in mar dirizzi e naviganti
a port’e segno di diritta via,

per la gloria ove sei, Vergine pia,
ti prego guardi a’ mia miseri pianti;
increscati di me, tomi davanti
l’insidie di colui che mi travia.

Io spero in te ed ho sempre sperato:
vagliami il lungo amore e reverente,
il qual ti porto ed ho sempre portato.

Dirizza il mio cammin, fammi possente
di divenir ancor dal destro lato
del tuo Figliuol, fra la beata gente.

CXX

Tu mi trafiggi, ed io non son d’acciaio:
e s’a dir mi sospingon le punture,
a dover ritrovarti le costure,
credo parratti desto un gran vespaio.

Deh, tu m’hai pieno, anzi colmo, lo staio;
bastiti omai, per Dio, e non m’indurre
a dettar versi delle tua lordure,
ch’io sarò d’altra foggia, ch’io non paio.

E poi che la parola uscita è fuore,
indrieto ritornar non si può mai,
né vale il dir: “vorrei aver creduto”.

S’el ti prude la penna, il folle amore
e la fortuna dan da dire assai:
in ciò trastulla lo tuo ingegno acuto
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