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Rime 021 - 040 (17)
#1
XXI.

Grave, saggio, cortese, alto signore,
lume di questa nostra oscura etate,
che desti ‘l mondo e ‘l chiami in libertate
da servitute, e nel suo antico onore,

solo refugio in così lungo errore
de le nove sorelle abandonate,
figliuol di Giove, amico d’onestate,
per cui ‘l ben vive e ‘l mal si strugge e more,

o Ercole, che travagliando vai
per lo nostro riposo, e ‘n terra fama
e ‘n ciel fra gli altri Dei t’acquisti loco,

sgombra da te le gravi cure omai
e qua ne ven, ove a diletto e gioco
l’erba, il fiume, gli augei, l’aura ti chiama

XXII

Re degli altri, superbo e sacro monte,
ch’Italia tutta imperioso parti
e per mille contrade e più comparti
le spalle, il fianco e l’una e l’altra fronte,

de le mie voglie mal per me sì pronte
vo risecando le non sane parti,
e raccogliendo i miei pensieri sparti
sul lito, a cui vicin cadeo Fetonte:

per appoggiarli al tuo sinistro corno,
là dove bagna il bel Metauro e dove
valor e cortesia fanno soggiorno;

e s’a prego mortal Febo si move,
tu sarai ‘l mio Parnaso, e ‘l crine intorno
ancor mi cingerai d’edere nove

XXIII

Del cibo, onde Lucrezia e l’altre han vita,
in cui vera onestà mai non morio,
l’un pasca il digiun vostro lungo e rio,
donna più che mortal, saggia e gradita.

L’altro la faccia bianca e sbigottita
dal tuon, che qui sì grande si sentio,
depinga col liquor d’un alto oblio
e vi ritorni vaga e colorita.

E ‘l terzo vi stia inanzi a tutte l’ore,
e s’aven che Medusa a voi si mostri,
schermo vi sia, che non s’impetre il core.

Per me si desti tanto il mio Signore,
ch’io trovi loco in grembo a’ pensier vostri,
tal che ‘nvidia non basti a trarmen fore.


XXIV.

Tomaso, i’ venni, ove l’un duce mauro
fece del sangue suo vermiglio il piano,
di molti danni al buon popol romano,
cui l’altro afflitto avea, primo restauro.

Qui miro col piè vago il bel Metauro
gir fra le piaggie or disdegnoso or piano,
per mille rivi giù di mano in mano
portando al mar più ricco il suo tesauro.

Talor m’assido in su la verde riva,
e mentre di Madonna parlo o scrivo,
ad ogni altro penser m’involo spesso.

Così con l’alma solitaria e schiva
assai tranquillo e riposato vivo,
sprezzando ‘l mondo, e molto più me stesso

XXVI.

De la gran quercia, che ‘l bel Tebro adombra,
esce un ramo, et ha tanto i cieli amici,
che gli onorati sette colli aprici
e tutto ‘l fiume di vaghezza ingombra.

Questi m’è tal, che pur la sua dolce ombra
far pote i giorni miei lieti e felici,
et ha sì nel mio cor le sue radici,
che né forza né tempo indi lo sgombra.

Pianta gentil, ne le cui sacre fronde
s’annida la mia speme e i miei desiri,
te non offenda mai caldo né gelo,

e tanto umor ti dian la terra e l’onde
e l’aura intorno sì soave spiri,
che t’ergan sovr’ogni altra infino al cielo

XXVII.

— Io ardo — dissi, e la risposta invano,
come ‘l gioco chiedea, lasso, cercai;
onde tutto quel giorno e l’altro andai
qual uom, ch’è fatto per gran doglia insano.

Poi che s’avide, ch’io potea lontano
esser da quel penser, più pia che mai
ver me volgendo de’ begli occhi i rai,
mi porse ignuda la sua bella mano.

Fredda era più che neve; né ‘n quel punto
scorsi il mio mal, tal di dolcezza velo
m’avea dinanzi ordito il mio desire.

Or ben mi trovo a duro passo giunto,
ché, s’i’ non erro, in quella guisa dire
volle Madonna a me, com’era un gelo.

XXVIII.

Viva mia neve e caro e dolce foco,
vedete com’io agghiaccio e com’io avampo,
mentre, qual cera, ad or ad or mi stampo
del vostro segno, e voi di ciò cal poco.

Se gite disdegnosa, tremo e loco
non trovo, che m’asconda, e non ho scampo
dal gelo interno; se benigno lampo
degli occhi vostri ha seco pace e gioco,

surge la speme, e per le vene un caldo
mi corre al cor e sì forte l’infiamma,
come s’ei fosse pur di solfo e d’esca.

Né per questi contrarî una sol dramma
scema del penser mio tenace e saldo,
c’ha ben poi tanto, onde s’avanzi e cresca.

XXIX.

Bella guerriera mia, perché sì spesso
v’armate incontro a me d’ira e d’orgoglio,
che in atti et in parole a voi mi soglio
portar sì reverente e sì dimesso?

Se picciol pro del mio gran danno expresso
a voi torna o piacer del mio cordoglio,
né di languir né di morir mi doglio,
ch’io vo solo per voi caro a me stesso.

Ma se con l’opre, ond’io mai non mi sazio,
esser vi pò d’onor questa mia vita,
di lei vi caglia e non ne fate strazio.

L’istoria vostra col mio stame ordita,
se non mi si darà più lungo spazio,
quasi nel cominciar sarà finita.

XXX.

— A questa fredda tema, a questo ardente
sperar, a questo tuo diletto e gioco,
a questa pena, Amor, perché dai loco
nel mio cor ad un tempo e sì sovente?

Ond’è, ch’un’alma fai lieta e dolente
inseme spesso, e tutta gelo e foco?
Stati contrari e tempre, era a te poco,
se separatamente uom prova e sente? —

Risponde: — Voi non durereste in vita,
tanto è ‘l mio amaro e ‘l mio dolce mortale,
se n’aveste sol questa o quella parte.

Confusi, mentre l’un con l’altro male
contende e scemal di sua forza in parte,
quel, che v’ancideria per sé, v’aita .—

XXXI.

Nei vostri sdegni, aspra mia morte e viva,
s’io piango e sfogo in voci alte e dolenti,
tal voi risguardo avete a’ miei lamenti,
qual rapido torrente a letto o riva.

S’io taccio, l’alma, d’ogni speme priva,
brama che ‘l nodo suo tosto s’allenti,
certa ch’alor di voi le nostre genti
— Ancise il suo fedel mentre e’ fioriva, —

diranno; e già non sete voi sì vostra,
com’io, da che primier vi scorsi e dissi:
— Questa è lo specchio e ‘l sol de l’età nostra .—

E ‘n tante carte poi lo sparsi e scrissi,
che, s’a mia voglia ancor poco si mostra,
pur saprà ogniun, ch’io mori’ vostro e vissi.

XXXII.

Sì come quando il ciel nube non have
e l’aura in poppa con soave forza
spira, senza alternar di pioggia e d’orza
tutta lieta sen’ va spalmata nave,

e come poi che ‘l tempestoso e grave
vela, remi, governo, ancore sforza
e l’arte manca e ‘l mar poggia e rinforza,
sente dubbio il suo stato e del fin pave,

tal io, da speme onesta e pura scorto,
assai mi tenni fortunato un tempo,
mentre non m’ebbe la mia donna in ira;

e tal, or che mi sdegna a sì gran torto,
l’alma offesa da lei piagne e sospira,
che gir si vede a morte anzi ‘l suo tempo.

XXXIII.

La mia fatal nemica è bella e cruda,
Cola, né so qual più, ma cruda e bella,
quanto il sol caldo e chiaro, e ben tal ella
nel cor mi siede, che n’agghiaccia e suda.

Già bella solo, or di pietà sì nuda
inseme, lasso, e sì d’amor rubella,
che, vedete tenor di fera stella,
temo non morte le mie luci chiuda,

prima ch’io scorga in quel bel viso un segno,
non dico di mercé, ma che le ‘ncresca
pur solamente del mio strazio indegno.

Felice voi già preso a più dolce esca,
cui micidial di lei vaghezza o sdegno
gelo e foco ne l’alma non rinfresca.

XXXIV.

Mostrommi Amor da l’una parte, ov’era,
quanta non fu giamai fra noi né fia,
bellezza in sé raccolta e leggiadria
e piano orgoglio et umiltate altera,

brama, ch’ogni viltà languisca e pera
e fiorisca onestate e cortesia,
donna in opre crudel, in vista pia,
che di nulla qua giù si fida o spera;

da l’altra speme al vento e tema invano
e fugace allegrezza e fermi guai
e simulato riso e pianti veri

e scorno in su la fronte e danno in mano;
poi disse a me: — Seguace, quei guerrieri
e questo guiderdon tu meco avrai .—

XXXVII.

Sì come sola scalda la gran luce
e veste ‘l mondo e sola in lui risplende,
così nel penser mio sola riluce
Madonna e sol di sé l’orna e raccende.

E qual il velo, che la notte stende,
Febo ripiega e seco il dì conduce,
tal ella, i mali che la vita adduce
sgombrando, al cor con ogni ben si rende.

Tanta grazia del ciel chi vede altrove?
rivolgete, scrittor famosi e saggi,
tutte in lodar costei le vostre prove

Ma tu, che vibri sì felici raggi,
mio bel pianeta, onor di chi ti move,
non tôrre a l’alma i tuoi dolci viaggi.

XXXVIII.

L’alta cagion, che da principio diede
a le cose create ordine e stato,
dispose ch’io v’amassi e dielmi in fato,
per far di sé col mondo exempio e fede.

Che sì come virtù da lei procede,
che ‘l tempra e regge, e come è sol beato
a cui per grazia il contemplarla è dato,
et essa è d’ogni affanno ampia mercede,

così ‘l sostegno mio da voi mi vene
od in atti cortesi od in parole,
e sol felice son, quand’io vi miro.

Né maggior guiderdon de le mie pene
posso aver di voi stessa, ond’io mi giro
pur sempre a voi, come elitropio al sole.

XXXIX.

Verdeggi a l’Appennin la fronte e ‘l petto
d’odorate felici arabe fronde,
corra latte il Metauro e le sue sponde
copran smeraldi e rena d’oro il letto.

Al desiato novo parto eletto
de la lor donna, a cui foran seconde
quante prime fur mai, la terra e l’onde
si mostrin nel più vago e lieto aspetto.

Taccian per l’aere i venti, e caldo o gelo,
come pria, no ‘l distempre, e tutti i lumi,
che portan pace a noi, raccenda il cielo.

D’alti pensieri, oneste e pure voglie,
lodate arti, cortesi e bei costumi
si vesta il mondo, e mai non se ne spoglie.

XL.

O ben nato e felice, o primo frutto
de le due nostre al ciel sì care piante,
o verga, al cui fiorir l’opere sante
terranno il mondo e ‘l nostro secol tutto,

queta l’antica tema e ‘l pianto asciutto
n’hai tu, nascendo, per molt’anni avante;
poi, quando già potrai fermar le piante,
quel, ch’or non piace, sarà spento in tutto.

Mira le genti strane e la raccolta
schiera de’ tuoi, ch’a prova onor ti fanno,
e del gran padre tuo le lode ascolta:

che per tornar Italia in libertade
sostien ne l’arme grave e lungo affanno,
pien d’un leggiadro sdegno e di pietade.
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