Rime 141 - 160 (19) - Druckversion +- Sonett-Forum (https://sonett-archiv.com/forum) +-- Forum: Sonett-Archiv (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=126) +--- Forum: Sonette aus romanischen Sprachen (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=857) +---- Forum: Italienische Sonette (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=821) +----- Forum: Italienische Autoren B (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=1399) +------ Forum: Pietro Bembo (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=1225) +------ Thema: Rime 141 - 160 (19) (/showthread.php?tid=22337) |
Rime 141 - 160 (19) - ZaunköniG - 05.10.2012 CXLI. Casa, in cui le virtuti han chiaro albergo, e pura fede e vera cortesia, e lo stil, che d’Arpin sì dolce uscia, risorge, e i dopo sorti lascia a tergo, s’io movo per lodarvi e carte vergo, presontuoso il mio penser non sia: ché mentre e’ viene a voi per tanta via, nel vostro gran valor m’affino e tergo. E forse ancora un amoroso ingegno, ciò leggendo, dirà: — più felici alme di queste il tempo lor certo non ebbe. Due città senza pari e belle et alme le dier al mondo, e Roma tenne e crebbe. Qual può coppia sperar destin più degno? — CXLIII. Adunque m’hai tu pur, in sul fiorire morendo, senza te, frate, lasciato, perché ‘l mio dianzi chiaro e lieto stato ora si volga in tenebre e ‘n martire? Gran giustizia era e mio sommo desire, da me lo stral avesse incominciato, e come al venir qui son primo stato, ancora stato fossi al dipartire. Ché non arei veduto il mio gran danno: di me stesso sparir la miglior parte; e sarei teco fuor di questo affanno. Or ch’io non ho potuto inanzi andarte, piaccia al Signor, a cui non piace inganno, ch’io possa in breve e scarco seguitarte. CXLIV. Leonico, che ‘n terra al ver sì spesso gli occhi levavi e ‘l penser dotto e santo, et or nel cielo il guiderdon promesso ricevi al tuo di lui studio cotanto, a te non si conven doglia né pianto, ch’omai pien d’anni e pago di te stesso chiudi il tuo chiaro dì, ma festa e canto del grande a la tua vita onor concesso. Qual da la mensa uom temperato e sazio, ti diparti dal mondo, e torni a lui, che t’ha per nostro ben tardo ritolto. Conviensi a me, che non ho più, con cui sì securo fornir quel poco o molto, che de la dubbia via m’avanza, spazio CXLV. Navagier mio, ch’a terra strana volto per giovar a la patria, il mondo lassi, te piango, e piangon meco i liti, i sassi e l’erbe, che per te crebber già molto. Tu le palme latine hai di man tolto ai nostri tutte, con sì fermi passi salisti ‘l colle. Or quando più vedrassi tanto valor in un petto raccolto? Grave duol certo; pur io mi consolo, ch’or ti diporti con quell’alme antiche, che tanto amasti, e teco è ‘l buono e saggio Savorgnan, che contese a le nemiche schiere il suo monte, e fu d’alto coraggio, e poco inanzi a te prese il suo volo. CXLVI. Anime, tra cui spazia or la grande ombra del dotto Navagier, per sorte acerba di questo secol reo, che miete in erba tutti i suoi frutti o li dispiega in ombra, qual gioia voi de la sua vista ingombra, tal noi preme dolor: poi sì superba è stata morte, ch’i men degni serba, e del maggior valor prima ne sgombra. Piacciavi dir, quando il nostro emispero diede agli Elisi più sì chiaro spirto, et egli qual da voi riceve onore, raro dopo gli antichi: a questo Omero basciò la fronte e cinsela di mirto, Virgilio parte seco i passi e l’ore. CXLVII. Porto, che ‘l piacer mio teco ne porti, la vita e noi sì tosto abandonando, che farò qui senza te, lasso? e quando udirò cosa più, che mi conforti? Invidio te, che vedi i nostri torti dal tuo dritto sentier, già posti in bando gli umani affetti, e vo pur te chiamando beato e vivo, e noi miseri e morti. Deh che non mena il sole omai quel giorno, ch’io renda la mia guardia e torni al cielo, di tanti lumi in sì poche ore adorno? Nel qual, lasciato in terra il suo bel velo, fa con l’eterno Re colei soggiorno, onde ho la piaga, ch’ancor amo e celo. CXLVIII. Or hai de la sua gloria scosso Amore, o morte acerba; or de le donne hai spento l’alto sol di virtute e d’ornamento, e noi rivolti in tenebroso orrore. Deh perché sì repente ogni valore, ogni bellezza inseme hai sparso al vento? ben potei tu de l’altre ancider cento, e lei non tôrre a più maturo onore. Fornito hai, bella donna, il tuo viaggio, e torni al ciel con giovenetto piede, lasciando in terra la tua spoglia verde. Ben si pò dir omai, che poca fede ne serva il mondo, e come strale o raggio, a pena spunta un ben, che si disperde CXLIX. Ov’è, mia bella e cara e fida scorta, l’usata tua pietà, che sol mi lassi al camin duro, ai perigliosi passi, da me cotanto dilungata e torta? Vedi l’alma, che trema e si sconforta per lo tuo dipartire, e ‘n prova stassi d’abandonarmi e sfida i membri lassi, per seguir te, qual viva, or così morta. Ben le dice mio cor: — chi t’assecura? e forse a lei sua pace turberai, che di nostra salute in cielo ha cura .— Ella: — che fo più qui? — risponde — mai sostegno tale e ben tanto e ventura perdé null’altra, e tu misero il sai. CL. L’alto mio dal Signor tesoro eletto de’ suoi gemmai più ricchi e con più cura, quella, che né giudicio né misura usa nel tor, m’ha tolto; ond’io l’aspetto. Ché sì mendica e piena di sospetto è rimasa quest’alma e ‘n così dura vita, ch’assai le fora a gran ventura cenere farsi omai del suo ricetto: tal che leggiera e di quel nodo sciolta potesse tanto in su levarsi a volo, che si posasse a piè de la sua donna. O per me chiaro e lieto e dolce solo quel dì, né pò tardar, s’ella m’ascolta, che squarcierà questa povera gonna CLI. Quando, forse per dar loco a le stelle, il sol si parte, e ‘l nostro cielo imbruna, spargendosi di lor, ch’ad una ad una, a diece, a cento escon fuor chiare e belle, i’ penso e parlo meco: in qual di quelle ora splende colei, cui par alcuna non fu mai sotto ‘l cerchio de la luna, benché di Laura il mondo assai favelle? in questa piango, e poi ch’al mio riposo torno, più largo fiume gli occhi miei, e l’imagine sua l’alma riempie, trista; la qual mirando fiso in lei le dice quel, ch’io poi ridir non oso: o notti amare, o Parche ingiuste et empie. CLII. Tosto che la bell’alba, solo e mesto Titon lasciando, a noi conduce il giorno, e ch’io mi sveglio, e rimirando intorno non veggo ‘l sol, che suol tenermi desto, di dolor e di panni mi rivesto, e sospirando il bel dolce soggiorno, che ‘l ciel m’ha tolto, a lagrimar ritorno: la luce ingrata, e ‘l viver m’è molesto. Talor vengo agl’inchiostri, e parte noto le mie sventure; ma ‘l più celo e serbo nel cor, che nullo stile è che le spieghi. Talor pien d’ira e di speranze vòto, chiamo chi del mortal mi scinga e sleghi: o giorni tenebrosi, o fato acerbo! CLIII. S’al vostro amor ben fermo non s’appoggia mio cor, che ad ogni obietto par che adombre, pregate lei, che ne’ begli occhi alloggia, che di sì dura vita omai mi sgombre. Non sempre alto dolor, che l’alma ingombre, scema per consolar, ma talor poggia: come lumi del ciel per notturne ombre, come di foco in calce esca per pioggia. Morte m’ha tolto a la mia dolce usanza: or ho tutt’altro e più me stesso a noia, anzi a disdegno, e sol pianger m’avanza. Cosmo, chi visse un tempo in pace e ‘n gioia, poi vive in guerra e ‘n pene, e più speranza non ha di ritornar qual fu, si moia. CLIV. Ben devrebbe Madonna a sé chiamarme su nel beato e lieto asilo eterno, e ‘n questo pien di noia e pene inferno vita mortale omai più non lasciarme: ché non è sotto ‘l sol ben da quetarme, sì gli ho tutti col mondo inseme a scherno; né pò conforto al grave affanno interno, sendo di fuor chiusa ogni via, passarme. Ma s’ella il nodo a l’alma non discioglie, vedendo me di tacito e contento volto a sì triste e lamentose tempre, e per sé non m’ancide e quinci toglie il duol, che del suo ratto sparir sento, Soranzo, i’ piango e son per pianger sempre CLV. Donna, che fosti oriental Fenice tra l’altre donne, mentre il mondo t’ebbe, e poi che d’abitar fra noi t’increbbe, angel salisti al ciel novo e felice, l’alta beltà del nostro amor radice col senno, ond’ei tanto si stese e crebbe, vento fatal sì tosto non devrebbe aver divelta, l’un penser mi dice, per cui d’amaro pianto il cor si bagna; ma l’altro ad or ad or con tai parole prova quetarmi: a che ti struggi, o cieco? non era degno di sì chiaro sole occhio di mortal vista; or Dio l’ha seco, dal cui voler uom pio non si scompagna. CLVI. Deh, perché inanzi a me te ne sei gita, se tanto dopo me fra noi venisti? Od io non me n’andai, quando partisti, teco? e tempo era ben d’uscir di vita. Porgimi almen or tu dal cielo aita, ch’io chiuda questi dì sì neri e tristi, mostrandomi la via, per cui salisti al ben nato conciglio, alma e gradita. Mentre i duo poli e ‘l lucido Orione ti stai mirando, che tra lor si spazia, più giù qui, dov’io piango, e me risguarda; e per Giesù, ch’al mondo oggi fe’ grazia di sé nascendo, a trarmi di pregione e guidar costà su, non esser tarda. CLVII. S’Amor m’avesse detto: — ohimè, da morte fieno i begli occhi prima di te spenti —, avrei di lor con disusati accenti rime dettato e più spesse e più scorte, per mio sostegno in questa dura sorte, e perché le ben chiare et apparenti note rendesser le lontane genti de l’alma lor divina luce accorte; ché già sarebbe oltre l’Ibero e ‘l Gange, la Tana e ‘l Nilo intesa, e divulgato com’io solfo a quei raggi et esca fui. Or, poi ch’altro che pianger non m’è dato, piango pur sempre, e son, tanto duol m’ange, né di me stesso ad uopo né d’altrui. CLVIII. Un anno intero s’è girato a punto, che ‘l mondo cadde del suo primo onore, morta lei, ch’era il fior d’ogni valore col fior d’ogni bellezza inseme aggiunto. Come a sì mesto e lagrimoso punto non ti divelli e schianti, afflitto core, se ti rimembra, ch’a le tredeci ore del sesto dì d’agosto il sole è giunto? In questa uscìo de la sua bella spoglia nel mille cinquecento e trentacinque l’anima saggia, et io cangiando il pelo non so però cangiar pensieri e voglia, ch’omai s’affretti l’altra e s’appropinque, ch’io parta quinci e la rivegga in cielo. CLIX. Quella per cui chiaramente alsi et arsi undeci et undeci anni, al ciel salita, ha me lasciato in angosciosa vita: o guadagni del mondo incerti e scarsi! Ché s’uom sotto le stelle ha da lagnarsi di suo gran danno e di mortal ferita, i’ son colui, ch’a morte cheggio aita; né fine altronde al mio dolor può darsi. Ben la scorgo io sin di là su talora, d’amor e di pietate accesa il ciglio, dirmi: — tu pur qui sarai meco ancora — ond’io mi riconforto, et in quell’ora di volger l’alma al ciel prendo consiglio: poi torna il pianto tristo, che m’accora. CLX. Era Madonna al cerchio di sua vita trigesimo et ottavo, quando morte la spogliò del bel velo, eletto in sorte a vestir alma sì dal ciel gradita. Perché, crudeli Parche, ancora unita— mente a trar me del mio non foste accorte? Cosa non ho, ch’altro che duol m’apporte: col suo piè freddo ogni mia festa è gita. Qual alga in mar, che quinci e quindi l’onde sospingan, vivo, o qual abete in cima d’altissim’alpe, a l’Austro, al Borea segno. Se quei pur vive, ch’assai lieto in prima, perdé poi la sua guida e ‘l suo sostegno, e sempre chiama, e nessun mai risponde. |