Rime 101 - 120 (20) - Druckversion +- Sonett-Forum (https://sonett-archiv.com/forum) +-- Forum: Sonett-Archiv (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=126) +--- Forum: Sonette aus romanischen Sprachen (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=857) +---- Forum: Italienische Sonette (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=821) +----- Forum: Italienische Autoren B (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=1399) +------ Forum: Pietro Bembo (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=1225) +------ Thema: Rime 101 - 120 (20) (/showthread.php?tid=22335) |
Rime 101 - 120 (20) - ZaunköniG - 05.10.2012 CI. Ombre, in cui spesso il mio sol vibra e spiega suoi raggi, e talor parla e talor ride e dolcemente me da me divide e i vaghi e lievi spirti prende e lega, mentre venir tra voi non mi si niega, non curo, Amor se m’arde o se m’ancide: ché ‘n queste chiuse valli e sole e fide ogni mia pena e morte ben s’impiega. Sento una voce fuor dei verdi rami dir: — sì leggiadra donna e sì gentile esser non pò, che non gradisca et ami .— Onde ‘l superno re, devoto, umile prego, non tosto in ciel la si richiami: ch’io sarei cieco, e ‘l mondo oscuro e vile. CII. Fiume, onde armato il mio buon vicin bebbe, quando del gorgo e de la destra riva fugò lo stuol di Sparta, che veniva di quel cercando, che trovar gl’increbbe, qual ti fe’ dono e quant’onor t’accrebbe quel dì, che ‘l corso tuo leggiadra e schiva vincea Madonna, e ‘n contro a te saliva col sol, ch’a lei mirando invidia n’ebbe, e d’un oscuro nembo ricoperse la ricca navicella d’ogn’intorno, che di ventosa pioggia la consperse. Ma poi, come temesse infamia e scorno di tal vendetta, il ciel turbato aperse, rendendo a Teti chiaro e puro il giorno. CIII. Se voi sapete che ‘l morir ne doglia, però che da noi stessi ne diparte, sapete ond’è, che, quand’io sto in disparte di Madonna, mi preme ultima doglia. Ella è l’alma di me, ch’ogni sua voglia ne fa, sì come donna in serva parte: io, che lei seguo, in altro non ho parte, che ‘n questa grave e frale e nuda spoglia. E poi che non pote uom senza lo spirto tenersi in vita, ognior ch’io le son lunge, morte m’assale, ond’i’ m’agghiaccio e torpo. Vero è, ch’un crin di lei negletto et irto ch’io miri, o l’ombra pur del suo bel corpo, Trifon mio caro, a me mi ricongiunge. CIV. Molza, che fa la donna tua, che tanto ti piacque oltra misura? e fu ben degno, poi che sì chiaro e sì felice ingegno veste di sì leggiadro e sì bel manto. Tienti ella per costume in doglia e pianto mai sempre, onde ti sia la vita a sdegno? O pur talor ti mostra un picciol segno, che le ‘ncresca del tuo languir cotanto? Che detta il mio collega, il qual n’ha mostro col suo dir grave e pien d’antica usanza sì come a quel d’Arpin si pò gir presso? Che scrivi tu, del cui purgato inchiostro già l’uno e l’altro stil molto s’avanza? Star neghittoso a te non è concesso. CV. Se la più dura quercia, che l’alpe aggia, v’avesse partorita, e le più infeste tigri Ircane nodrita, anco devreste non essermi sì fera e sì selvaggia. Lasso, ben fu poco aveduta e saggia l’alma, che di riposo in sì moleste cure si pose, e le mie vele preste girò dal porto a tempestosa piaggia. Altro da indi in qua, che pene e guai, non fu meco un sol giorno, et onta e strazio e lagrime, che ‘l cor profondo invia. Né sarà per inanzi, e se pur fia, non fia per tempo: ch’i’ son, Donna, omai di viver, non che d’altro, stanco e sazio CVI. Per far tosto di me polvere et ombra, non v’hann’uopo erbe, Donna, in Ponto colte: tenete pur le luci in sé raccolte, mostrandovi d’amor e pietà sgombra. L’alma, cui grave duol dì e notte ingombra, non par omai che più conforto ascolte, misera, e le speranze vane e stolte del cor, già stanco in aspettando, sgombra. Breve spazio che dure il vostro orgoglio, avrà fin la mia vita, e non men’ pento: non viver pria, che sempre languir, voglio. Morte, che tronca lungo aspro tormento, è riposo, e chiunque a suo cordoglio si toglie per morir, moia contento. CVII. Sì levemente in ramo alpino fronda non è mossa dal vento o spica molle in colto e verde poggio o nebbia in colle o vaga nel ciel nube e nel mar onda, come sotto bel velo e treccia bionda in picciol tempo un cor si dona e tolle, e disvorrà quel che più ch’altro volle, e di speranze e di sospetti abonda. Gela, suda, chier pace e move guerra: nostra pena, Signor, che noi legasti a così grave e duro giogo in terra. Se non che sofferenza ne donasti; con la qual chi le porte al dolor serra, pur vive, e par che prova altra non basti. CVIII. Tanto è ch’assenzo e fele e rodo e suggo, ch’omai di lor mi pasco e mi nodrisco, e son sì avezzo al foco, ond’io mi struggo, che volontariamente ardo e languisco. E se del carcer tuo pur talor fuggo, per fuggir da la morte, e tanto ardisco, tosto ne piango et a pregion rifuggo, Amor, più dura, in pena del mio risco. E fo come augellin, che si fatica per uscir de la rete, ov’egli è colto; ma quanto più si scuote, e più s’intrica. Tal fu mia stella il dì, che nel bel volto mirai primier de l’aspra mia nemica, ch’a me tutt’altro e più me stesso ha tolto. CIX. La nostra e di Giesù nemica gente, ch’or lieta, come fosse un picciol varco, l’Istro passando, in parte ha l’odio scarco sovra quei, che la fer già sì dolente; di cui trema il Tedesco, e ‘n van si pente, ch’al ferro corse pigro, a l’oro parco, e vede incontro a sé riteso l’arco, c’ha Rodo e l’Ungheria piagate e spente; tu, che ne sembri Dio, raffrena, e doma l’empio furor con la tua santa spada, sgombrando ‘l mondo di sì grave oltraggio, e noi di tema, che non pera e cada sopra queste Lamagna, Italia e Roma: e direnti Clemente e forte e saggio. CX. Da torvi agli occhi miei s’a voi diede ale fortuna ria, cui del mio bene increbbe, di levarvi al penser forza non ebbe, ch’è con voi sempre, al volar vostro equale. Questi vi mira quanto sete e quale, e se ‘l poteste udir, vi conterebbe di me, degli altri vostri, e ne devrebbe valer, se vero amor suo pregio vale. Ché poi che Pisa n’ha disciolti e privi di vostra compagnia, sem fatti quasi selve senz’ombra, o senza corso rivi. Pochi degli onor tuoi ti son rimasi, Padova mia; che i più son translati ivi col buon Ridolfo nostro, onde fiorivi. CXI. Pon Febo mano a la tua nobil arte, ai sughi, a l’erbe, e quel dolce soggiorno de’ miei pensier, cui piovve entro e d’intorno quanta beltà fra mille il ciel comparte, ch’or langue e va mancando a parte a parte, risana e serba: a te fia grave scorno, se così cara donna anzi ‘l suo giorno dal mondo, ch’ella onora, si diparte. Torna col chiaro sguardo, ch’è ‘l mio sole, la guancia, che l’affanno ha scolorita, a far seren, qual pria, de le nostre ugge. E sì darai tu scampo a la mia vita, che si consuma in lei, né meco vòle sol un dì sovrastar, s’ella sen’ fugge CXII. Tenace e saldo, e non par che m’aggrave, è ‘l nodo, onde mi strinse a voi la Parca, che fila il viver nostro; e ben è parca tutto lo stame far chiaro e soave. Ché qual avinta dietro a ricca nave solca talor la sua picciola barca l’Egeo turbato, e di par seco il varca, e procella sostien noiosa e grave, tal io, mentre fra via l’onde avolgendo vi percosse repente aspra tempesta, passai quel mar con travagliato legno; ma poi fortuna più non v’è molesta, corro sedato voi lieta seguendo, fatale e prezioso mio ritegno. CXIII. Mentre navi e cavalli e schiere armate, che ‘l ministro di Dio sì giustamente move a ripor la misera e dolente Italia e la sua Roma in libertate, son cura de la vostra alta pietate, io vo, Signor, pensando assai sovente cose, ond’io queti un desiderio ardente di farmi conto a più d’un’altra etate. Dal vulgo intanto m’allontano e celo, là dov’i’ leggo e scrivo, e ‘n bel soggiorno partendo l’ore fo picciol guadagno. Peso grave non ho dentro o d’intorno; cerco piacer a Lui, che regge il cielo: di duo mi lodo, e di nessun mi lagno. CXIV. Arsi, Bernardo, in foco chiaro e lento molt’anni assai felice, e, se ‘l turbato regno d’Amor non ha felice stato, tennimi almen di lui pago e contento. Poi, per dar le mie vele a miglior vento, quando lume del ciel mi s’è mostrato, scintomi del bel viso in sen portato, sparsi col piè la fiamma, e non men’ pento. Ma l’imagine sua dolente e schiva m’è sempre inanzi, e preme il cor sì forte, ch’io son di Lete omai presso a la riva. S’io ‘l varcherò, farai tu che si scriva sovra ‘l mio sasso, com’io venni a morte, togliendomi ad Amor, mentr’io fuggiva. CXV. Se de le mie ricchezze care e tante e sì guardate, ond’io buon tempo vissi di mia sorte contento, e meco dissi: — Nessun vive di me più lieto amante, — io stesso mi disarmo, e queste piante, avezze a gir pur là, dov’io scoprissi quegli occhi vaghi e l’armonia sentissi de le parole sì soavi e sante, lungi da lei di mio voler sen’ vanno, lasso, chi mi darà, Bernardo, aita? O chi m’acqueterà, quand’io m’affanno? Morrommi, e tu dirai, mia fine udita: — Questi, per non veder il suo gran danno, lasciata la sua donna, uscìo di vita .— CXVI. Signor, che parti e tempri gli elementi, e ‘l sole e l’altre stelle e ‘l mondo reggi, et or col freno tuo santo correggi il lungo error de le mie voglie ardenti, non lasciar la mia guardia e non s’allenti la tua pietà, perch’io tolto a le leggi m’abbia d’Amor, e disturbato i seggi in ch’ei di me regnava, alti e lucenti. Ché, come audace lupo suol degli agni stretti nel chiuso lor, così costui ritenta far di me l’usata preda. Acciò pur dunque in danno i miei guadagni non torni e ‘l lume tuo spegner si creda, con fermo piè dipartirmi da lui. CXVII. Che gioverà da l’alma avere scosso con tanta pena il giogo, che la presse lunga stagion, s’Amor con quelle stesse funi il rilega, et io fuggir non posso? Meglio era che lo strale, onde percosso fui da’ begli occhi, ancor morto m’avesse, che fosse il braccio tuo, ch’alor mi resse, da me, superno Padre, unqua rimosso. Ma poi ch’errante e cieco mi guidasti, Tu sentiero e Tu luce, ora ti degna voler, che ciò far vano altri non basti, e lei sì del tuo foco incendi e segna, che poggiando in desir leggiadri e casti rivoli a te, quando ‘l suo dì ne vegna CXVIII. Signor, che per giovar sei Giove detto, e sempre offeso giamai non offendi, da quel folle tiranno or mi difendi, del qual fui cotant’anni e sì suggetto. Se, per donarmi a te, chiaro disdetto ho fatto a lui, sovra ‘l mio scampo intendi, e perché ‘l fallo mio tutto s’ammendi, col tuo favor tranquilla il mio sospetto. Di riaprirsi Amor questo rinchiuso fianco, e raccender la sua fiamma spenta cerca: tu dammi, ond’ei resti deluso. Ché l’ardir suo conosco e l’antico uso, e so come scacciato al cor s’aventa, e dentro v’è quando ne pare excluso. CXIX. Uscito fuor de la prigion trilustre e deposto de l’alma il grave incarco, salir già mi parea, spedito e scarco, per la strada d’onor montana, illustre, quand’ecco Amor, ch’al suo calle palustre mi richiama, e lusinga, e mostra il varco, né di pregar, né di turbar è parco, per rimenarmi a le lasciate lustre. Ond’io, Padre celeste, a te mi volgo: tu l’alta via m’apristi, e tu la sgombra de le costui, contra ‘l mio gir, insidie. Mentre da questa carne non mi sciolgo, scaccia da me sì col tuo sole ogni ombra, che ‘l bel preso camin nulla m’invidie CXX. Signor del ciel, s’alcun prego ti move, volgi a me gli occhi, questo solo, e poi, s’io ‘l vaglio, per pietà coi raggi tuoi porgi soccorso a l’alma e forze nove; tal ch’Amor questa volta indarno prove tornarmi ai già disciolti lacci suoi. Io chiamo te, ch’assecurar mi puoi: solo in te speme aver posta mi giove. Gran tempo fui sott’esso preso e morto; or poco o molto a te libero viva, e tu mi guida al fin, tardi o per tempo. Se m’ha falso piacer in mare scorto, vero di ciò dolor mi fermi a riva: non è da vaneggiar omai più tempo. |