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Rime 081 - 100 (19) - ZaunköniG - 05.10.2012 LXXXI. Mostrommi entro a lo spazio d’un bel volto e sotto un ragionar cortese, umile, per farmi ogni altro caro esser a vile, Amor, quanto pò darne il ciel, raccolto. Da indi in qua con l’alma al suo ben volto, lunge, vicin, già per antico stile scorgo i bei lumi e odo quel gentile spirto e d’altro giamai non mi cal molto. Fortuna, che sì spesso indi mi svia, tolga agli occhi, agli orecchi il proprio obietto, e ‘n parte le dolcezze mie distempre: al cor non torrà mai l’alto diletto, ch’ei prova di veder la donna mia, ovunque io vado, e d’ascoltarla sempre LXXXII. Caro sguardo sereno, in cui sfavilla quanta non vide altrove uom mai bellezza, parlar saggio, soave, onde dolcezza non usata fra noi deriva e stilla, solo di voi pensando si tranquilla in me la tempestosa mente, avezza mirarvi, udirvi, e, ciò più ch’altro apprezza, lodando Amor, che col suo strale aprilla. Amor la punse, e poi scolpio l’adorna fronte e i begli occhi, e scrisse le parole dentro nel cor via più che ‘n petra salde; perch’ella, com’augel, ch’a parte vole ond’ha suo cibo, a lor sempre ritorna con l’ali del desio veloci e calde. LXXXIV. Felice imperador, ch’avanzi gli anni con la virtute, e rendi a questi giorni l’antico onor di Marte, e ‘n pregio il torni, e per noi riposar te stesso affanni; per cui spera saldar tanti suoi danni Roma, e fra più che mai lieti soggiorni sentir ancor sette suoi colli adorni di tuoi trionfi, e ‘l mondo senza inganni; mira ‘l settentrion, signor gentile: voce udirai, che ‘n fin di là ti chiama, per farti sopra ‘l ciel volando ir chiaro. Sì vedrem poi del nostro ferro vile far secol d’oro e viver dolce e caro: questo fia nostro, tuo ‘l pregio e la fama. LXXXV. Amor, mia voglia e ‘l vostro altero sguardo, ch’ancor non volse a me vista serena, mi danno, lasso, ognior sì grave pena, ch’io temo no ‘l soccorso giunga tardo. Al foco de’ vostr’occhi qual esca ardo, a cui l’ingordo mio voler mi mena, e se ragion alcun tempo l’affrena, Amor poi ‘l fa più leve e più gagliardo. Così mi struggo e pur, s’io non m’inganno, sete sol voi cagion ch’io mi consume, e mia voglia et Amor lor dritto fanno: ché potreste mutar l’aspro costume de le luci, ond’io vo per minor danno a morte, come al mar veloce fiume LXXXVI. Quando ‘l mio sol, del quale invidia prende l’altro, che spesso si nasconde e fugge, levando ogni ombra, che ‘l mio bene adugge, vago sereno agli occhi miei risplende, sì co’ suoi vivi raggi il cor m’accende, che dolcemente ei si consuma e strugge, e come fior, che ‘l troppo caldo sugge, potria mancar, che nulla ne ‘l difende. Se non ch’al suo sparir m’agghiaccio, e poi con vista d’uom, che piange sua ventura, passo in una marmorea figura. Medusa, s’egli è ver, che tu di noi facevi petra, assai fosti men dura di tal, che m’arde, strugge, agghiaccia e ‘ndura. LXXXVII. O superba e crudele, o di bellezza e d’ogni don del ciel ricca e possente, quando le chiome d’or caro e lucente saranno argento, che si copre e sprezza, e de la fronte, a darmi pene avezza, l’avorio crespo e le faville spente, e del sol de’ begli occhi vago ardente scemato in voi l’onor e la dolcezza, e ne lo specchio mirerete un’altra, direte sospirando: — eh lassa, quale oggi meco penser? perché l’adorna mia giovenezza ancor non l’ebbe tale? A questa mente o ‘l sen fresco non torna? Or non son bella, alora non fui scaltra .— LXXXVIII. Sogno, che dolcemente m’hai furato a morte e del mio mal posto in oblio, da qual porta del ciel cortese e pio scendesti a rallegrar un dolorato? Qual angel hai là su di me spiato, che sì movesti al gran bisogno mio? scampo a lo stato faticoso e rio, altro che ‘n te non ho, lasso, trovato. Beato se’, ch’altrui beato fai: se non ch’usi troppo ale al dipartire, e ‘n poca ora mi tôi quel che mi dai. Almen ritorna, e già che ‘l camin sai, fammi talor di quel piacer sentire, che senza te non spero sentir mai. LXXXIX. Se ‘l viver men che pria m’è duro e vile, né più d’Amor mi pento esser suggetto, né son di duol, come io solea, ricetto, tutto questo è tuo don, sogno gentile. Madonna più che mai tranquilla, umile, con tai parole e ‘n sì cortese affetto mi si mostrava, e tanto altro diletto, ch’asseguir no ‘l poria lingua né stile. — Perché — dicea — la tua vita consume? perché pur del signor nostro ti lagni? frena i lamenti omai, frena ‘l dolore .— E più cose altre; quando il primo lume del giorno sparse i miei dolci guadagni, aperti gli occhi e traviato il core XC. Giaceami stanco, e ‘l fin de la mia vita venia, né potea molto esser lontano, quando pietosa, in atto onesto e piano, Madonna apparve a l’alma, e diemmi aita. Non fu sì cara voce unquanco udita, né tocca, dicev’io, sì bella mano, quant’or da me, né per sostegno umano tanta dolcezza in cor grave sentita. E già negli occhi miei feriva il giorno nemico degli amanti, e la mia speme parea qual sol velarsi che s’adombre. Gìosene appresso il sonno, et ella, inseme co’ miei diletti e con la notte intorno, quasi nebbia sparì che ‘l vento sgombre. XCI. Mentre ‘l fero destin mi toglie e vieta veder Madonna e tiemmi in altra parte, la bella imagin sua veduta in parte il digiun pasce e i miei sospiri acqueta. Però s’a l’apparir del bel pianeta, che tal non torna mai, qual si diparte, ebbi conforto a l’alma dentro, e parte ristetti in vista desiosa e lieta, fu, perch’io ‘l miro in vece et in sembianza de la mia donna, che men fredda o ria o fugace di lui non mi si mostra; e più ne avrò, se piacer vostro fia, che ‘l sonno de la vita, che gli avanza, si tenga Endimion la Luna vostra XCII. Perché sia forse a la futura gente, com’io fui vostro, ancora eterno segno, queste rime, devoto, e questo ingegno vi sacro e questa mano e questa mente. E se non più per tempo, o del presente secolo speme e mio fido sostegno, a così riverirvi e darvi pegno del mio verace amor divenni ardente, farò qual peregrin, desto a gran giorno, che ‘l sonno accusa e, raddoppiando i passi, tutto ‘l perduto del camin racquista. Ma o pur non da voi si prenda a scorno il mio dir roco e i versi incolti e bassi, io, per mirar nel sol, perda la vista. XCIII. Questa del nostro lito antica sponda, che te, Venezia mia, copre e difende, e, mentre il corso al mar frena e suspende, la fier mai sempre e la percote l’onda, rassembra me, che se ‘l dì breve sfronda i boschi o se le piaggie il lungo accende, mi bagna riva, che dagli occhi scende, riva, ch’aperse Amor larga e profonda. Ma non perviene a la mia donna il pianto, che d’intorno al mio cor ferve e ristagna, per non turbar la sua fronte serena. La qual vedesse sol un giorno, quanto per lei dolor dì e notte m’accompagna, assai fora men grave ogni mia pena XCIV. La fera che scolpita nel cor tengo, così l’avess’io viva entro le braccia: fuggì sì leve, ch’io perdei la traccia, né freno il corso, né la sete spengo. Anzi così tra due vivo e sostengo l’anima forsennata, che procaccia far d’una tigre sciolta preda in caccia, traendo me, che seguir lei convengo. E so ch’io movo indarno, o penser casso, e perdo inutilmente il dolce tempo de la mia vita, che giamai non torna. Ben devrei ricovrarmi, or ch’i’ m’attempo et ho forse vicin l’ultimo passo: ma piè mosso dal ciel nulla distorna. XCV. Mentre di me la verde abile scorza copria quel d’entro, pien di speme e caldo, vissi a te servo, Amor, sì lieto e saldo, che non ti fu a tenermi uopo usar forza. Or che ‘l volger del ciel mi stempra e sforza con gli anni e più non sono ardito e baldo com’io solea, né sento al cor quel caldo, che scemato giamai non si rinforza, stendi l’arco per me, se vòi ch’io viva, né ti dispiace aver chi l’alte prove de la tua certa man racconti e scriva. Non ho sangue e vigor da piaghe nove sofferir di tuo strale: omai l’oliva mi dona e spendi le saette altrove XCVI. Se tutti i miei prim’anni a parte a parte ti diedi, Amor, né mai fuor del tuo regno posi orma o vissi un giorno, era ben degno ch’io potessi attempato omai lasciarte, e da’ tuoi scogli a più secura parte girar la vela del mio stanco legno, e volger questi studi e questo ingegno ad onorata impresa, a miglior arte. Non son, se ben me stesso e te risguardo, più da gir teco: i’ grave e tu leggero; tu fanciullo e veloce, i’ vecchio e tardo. Arsi al tuo foco e dissi: — altro non chero —, mentre fui verde e forte: or non pur ardo, secco già e fral, ma incenerisco e pero. XCVII. Già donna, or dea, nel cui verginal chiostro, scendendo in terra a sentir caldo e gelo, s’armò, per liberarne, il re del cielo, da l’empie man de l’aversario nostro, i pensier tutti e l’uno e l’altro inchiostro, cangiata veste e con la mente il pelo, a te rivolgo e, quel ch’agli altri celo, l’interne piaghe mie ti scopro e mostro. Sanale, che pòi farlo, e dammi aita a salvar l’alma da l’eterno danno: la qual se dal camin dritto impedita le Sirene gran tempo e schernit’hanno, non tardar tu, ch’omai de la mia vita si volge il terzo e cinquantesim’anno. XCVIII. In poca libertà con molti affanni, di là ‘v’io fui gran tempo, al dolce piano, che cesse in parte al buon seme Troiano, venni già grave di pensieri e d’anni; e posimi dal fasto e dagl’inganni e dagli occhi del vulgo assai lontano: ma che mi valse, Amor, s’a mano a mano tu pur a lagrimar mi ricondanni? Qui tra le selve e i campi e l’erbe e l’acque, alor quand’i’ credea viver securo, più feroce che pria m’assali e pungi. Lasso, ben veggio omai, sì come è duro fuggir quel, che di noi su nel ciel piacque; né pote uom dal suo fato esser mai lungi. XCIX. I chiari giorni miei passâr volando, che fur sì pochi, e tosto aperser l’ale; poi piacque al ciel, cui contrastar non vale, pormi di pace e di me stesso in bando. Così molt’anni ho già varcato; e, quando mancar devea la fiamma del tuo strale, Amor, che questo incarco stanco e frale tutto dentro e di fuor si va lentando, sento un novo piacer possente e forte giugner ne l’alma al grave antico foco, tal ch’a doppio ardo e par che non m’incresca. Lasso, ben son vicino a la mia morte: ché pote omai l’infermo durar poco, in cui scema virtù, febre rinfresca. C. Sento l’odor da lunge e ‘l fresco e l’ôra dei verdi campi, ove colei soggiorna, che co’ begli occhi suoi le selve adorna di fronde, e con le piante l’erba infiora. Sorgi da l’onde avanti a l’usat’ora dimane, o sole, e ratto a noi ritorna, ch’io possa il sol, che le mie notti aggiorna, veder più tosto, e tu medesmo ancora. Ché sai, tra quanto scaldi e quanto giri, beltade e leggiadria sì nova e tanta, perdonimi qualunque altra, non miri. E se qual alma quel bel velo amanta ancor sapessi, e quanto alti desiri, l’inchineresti, come cosa santa |