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Rime - Parte seconda (17) - ZaunköniG - 29.09.2012 I Iscinta e scalza, con le trezze avvolte, e d’uno scoglio in altro trapassando, conche marine da quelli spiccando, giva la donna mia con altre molte. E l’onde, quasi in sé tutte raccolte, con picciol moto i bianchi piè bagnando, innanzi si spingevan mormorando e ritraensi iterando le volte. E se tal volta, forse di bagnarsi temendo, i vestimenti in su tirava, sì ch’io vedeo più della gamba schiuso, oh, quali avria veduto allora farsi, chi rimirato avesse dov’io stava, gli occhi mia vaghi di mirar più suso! II O dì felice, o ciel chiaro sereno, o prati, o arbuscegli, o dolci amori, o angeliche voci, o lieti cori, de’ qual i’ vidi un bel giardin ripieno; o celeste armonia, la qual seguieno non so s’i’ dica angelichi splendori o vergini terrene, e tra’ be’ fiori e le piante danzando si movieno! Chi con istile ornato e con preciso discrivere ne potria le vedute bellezze, omai mo’ viste fra’ mortali? Non io, ch’esser credendo in paradiso, muover sentii secreta virtute, che ’l cor m’aprì con più di mille strali III D’oro crespi capelli ed annodati da sé e da verde frondi e bianchi fiori, un angelico viso e due splendori simili a stelle, e atti non usati veder fra noi, vezzosi e riposati, e un cantar di più gioiosi amori soave e lieto ben tra mille fiori del primo tempo, insieme radunati in un giardino nato ad un bel fonte, pos’Amore in amare alla mia mente libera ancora, semplice e leggera. Né pria, dal canto desto, alza’ la fronte, che tutte l’accerchiar subitamente e presa a lui’ la dier, che vicin era. IV Levasi il sol tal volta in oriente, senz’alcun raggio e rosso pe’ vapori; la luna, maculata di colori oscuri, appar men bella e men lucente; e del cielo ne sono assai sovente dalle nuvole tolti gli splendori; e’ nostri lumi, vie molto minori, per poco vento diventan niente. Ma que’ begli occhi splendidi, ne’ quali Amor fabrica e tempra le saette che mi passano il core a tutte l’ore, nebbia Né vento curan, ma son tali quai furon sempre: due vive fiammette, lucenti più ch’alcuno altro splendore. V I cape’ d’or, di verde fronde ornati, gli occhi lucenti e l’angelico viso, i leggiadri costumi e ’l vago riso di questa onesta donna hanno scacciati tutti li mia disiri, e sono in atti di sì somma biltà qual io diviso, ed hanno di lor fatto un paradiso degli occhi mei, più ch’altri, innamorati. Onde ogni altra bellezza m’è noiosa: questa mi piace e questa vo cercando, in questa ogni mia gioia si riposa. Per lei sospiro e per lei vo cantando, per lei m’aggrada la vita amorosa, per lei salute spero disïando. IX Io mi credea troppo ben l’altrieri ricoverato aver mia libertate: rotti avea i legami ed ispezzate le porte ed ingannati i prigionieri, e come per salvatichi sentieri fuggiva forte e per vie disusate; ma la sventura, che le mia pedate seguì, fece vani i mia pensieri. Perciò ch’Amor, dond’io non avvisai, vedendo mi rinchiude, e le sua armi ver me drizzando gridò: “Tu se’ giunto! O fuggitivo servo, ove ne vai? “ E rider, e ’l prender me e rilegarmi e ’l darmi a’ sua ministri fu in un punto. X Il mar tranquillo, producer la terra fiori ed erbette, el ciel queto girarsi, gli uccelli più che l’usato allegrarsi, quando fuori Eol zefiro disserra, ho gia veduto; se ’l veder non erra, veggio le donne belle e vaghe farsi, e le bestie ne’ boschi accompagnarsi, e pace e triegua farsi d’ogni guerra, posarsi i buoi delle fatiche loro, e bobolchi e’ pastor sotto alcuna ombra cercare il fresco e riposarsi alquanto. Ma io, che per amor mi discoloro, e cui disio più che speranza ingombra, riposare non posso tanto o quanto. XI S’io potessi lo specchio tenere al cui consiglio fersi le saette, che m’hanno il cor degli anni più di sette passato senza alcun contasto avere, da lui m’ingegnere’ quelle sapere fabbricar io, e qual tempra le mette; po’ con alquante delle più elette vi metterei nel petto il mio piacere. E ciò saria vedervi sospirare, gridar mercè senza trovarla, s’io non fussi prima di vendetta sazio. Forse potresti ancor, donna, apparare l’animo altero fare umile e pio, e di non far d’altrui giocondo istrazio XVII I’ ho già mille penne e più stancate scrivendo in rima ed in parlar soluto l’angoscioso dolor, ch’ho sostenuto lunga stagione aspettando pietate; e, s’io non erro, assai men quantitate quietare il mar da’ venti combattuto, e qualunqu’alto monte avrien dovuto muover del luogo suo, men faticate, non che ’l cuor d’una donna: il qual niente per lor di sua durezza s’è mutato, ma stassi freddo come ghiaccio all’ombra. Ond’io mi struggo, e dolorosamente piango la mia fortuna disperato; Né ’l cuor per tutto questo non mi sgombra. XIX Le nevi sono e le piogge cessate, l’ira del ciel, le nebbie e le freddure; i fior, le frondi e le fresche verdure, i lieti giorni e le feste tornate. Le donne son più che l’usato ornate, e tutte quasi Amor le creature trastulla e mena per le sue pasture, nel nuovo tempo, credo, innamorate. Per ch’io conosco ciò ch’io non vorrei: a Baia ’n seno esser colei invita che muove e gira tutti e disir miei. Or dormiss’io infino alla reddita, o girmene potessi là con lei, o non saper ch’ella vi fosse ita XX Per certo, quando il ciel con lieto aspetto riguarda ver la stagïon novella, nulla contrada ha ’l mondo così bella Né dove più si prenda di diletto. Quivi Amor regna senz’alcun sospetto, o ’l ciel che ’l faccia o singulare stella; Venere credo poi venisse in quella, del mare uscendo, come in luogo eletto. Quivi le piagge, la marina, i prati son pien di donne e di leggiadri amanti, e ciò che piace par vi si conceda. Quivi son feste e dilettosi canti; quivi si mettono amorosi agguati, Né mai senza gioir si leva preda. XXII I’ vo, sonetto, i mie’ pensier fuggendo, come colui che se li trova rei, però che sempre parlan di colei che la mia morte vuole e va chiedendo, e sì mi va, là dov’io vo, seguendo ad occuparmi piu eh io non vorrei: Né giungon pria, che ’l bel viso di lei col mio rimemorar vo dipingendo. E simil fan le liete feste avute l’amor, la grazia, el piacer e ’l diletto, e lei pongon dinnanzi alla mia mente: le qual, come conosco esser perdute, né mai di rivederle più aspetto, pianti e sospir si fan subitamente XXIV I’ solea spesso ragionar d’amore e talora cantar del vago viso, del qual fatto s’avea suo paradiso, come di luogo eletto, il mio signore. Or è il mio canto rivolto in dolore e trasmutato in pianto il dolce riso, po’ che per morte da no’ s’è diviso e terra è divenuto il suo splendore. Né sarà mai ch’alla mente mi torni quella imagine bella, che conforto porger solea a ciascun mio disire, che io non pianga e maladichi i giorni che tanto m’hanno in questa vita scorto, ch’io sento del mio ben fatto martire. XXVIII O ch’Amor sia, o sia lucida stella, te nel mio meditar forma sovente leggiadra, vaga, splendida e piacente, qual viva esser solevi, e così bella. Quivi con teco l’anima favella, ode e risponde, e tanta gioia sente, che la gloria del ciel crede niente, quantunque grande, per rispetto a quella. Ma, com’ la viva imagine si fugge e rompesi il pensier che la tenea, e che ’n terra se’ cener mi ricorda, torna il dolor che mi consuma e strugge, e prego te che la morte mi dea di te seguir: deh, non esser niù sorda! XXIX Rotto è il martello, rott’è quella ’ncugge che solean fabbricar le dolce rime, e rotti i folli, rotte son le lime, e la fucina tutta si distrugge; il foco più nel suo carbon non rugge, che riscaldava le materie prime, di che formando l’opre non sublime, cantai del falso amor cui ragion fugge. E però cessa la mia vaga penna di recar fole con parole vane, e da così fatta arte si rimane. Ma della fior soprana di soprane, che vince l’altre come sauro brenna, pur tratterò io laude alta e perenna. XXX Lasso! s’i’ mi lamento io n’ho ben donde, ch’io corsi e corro sempre gli anni rei, e però vo gridando: “Omei, omei “ per piani e per montagne e sopra l’onde. E quando io mi ripenso i’ non so donde mi debba riposar gli stanchi piei, sì mi menan girando i pensier miei più forte assai che ’l vento non fa fronde. I’ non so per qual cielo o per qual fato, o qual fortuna o qual distinto in terra, o per qual stella mi fosse ordinato ch’io non dovessi mai uscir di guerra, e povertà mi stesse sempre allato, come fa, che da me mai non si sferra. XXXII Dante Alighieri son, Minerva oscura d’intelligenza e d’arte, nel cui ingegno l’eleganza materna aggiunse al segno che si tien gran miracol di natura. L’alta mia fantasia, pronta e sicura, passò il tartareo e poi ’l celeste regno, e ’l nobil mio volume feci degno di temporale e spiritual lettura. Fiorenza magna terra ebbi per madre, anzi matregna, e io piatoso figlio, grazia di lingue scellerate e ladre. Ravenna fummi albergo nel mio esiglio: ed ella ha il corpo, l’alma ha il sommo Padre, presso a cui invidia non vince consiglio. |