Rime - Parte prima 101 - 120 (17) - Druckversion +- Sonett-Forum (https://sonett-archiv.com/forum) +-- Forum: Sonett-Archiv (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=126) +--- Forum: Sonette aus romanischen Sprachen (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=857) +---- Forum: Italienische Sonette (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=821) +----- Forum: Italienische Autoren B (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=1399) +------ Forum: Giovanni Boccaccio (https://sonett-archiv.com/forum/forumdisplay.php?fid=1224) +------ Thema: Rime - Parte prima 101 - 120 (17) (/showthread.php?tid=22312) |
Rime - Parte prima 101 - 120 (17) - ZaunköniG - 29.09.2012 CI “Che cerchi, stolto? che dintorno miri? cenere sparta son le membra in ch’io piacqui già tanto al tuo caldo desio e mossi il petto ai pietosi desiri. Perché non lievi gli occhi agli alti giri? Io dico al ciel, anz’al regno di Dio, dove più bel che mai il viso mio veder potrai, e pien de’ tuoi desiri”. Così con meco talora ragiona la bella donna, vedendo cercarmi quel che giammai quaggiù veder non deggio. Ma come ravveduto m’abbandona, piangendo penso come qui impennarmi possa, e volar al suo beato seggio. CII Dante, se tu nell’amorosa spera, com’io credo, dimori riguardando la bella Bice, la qual già cantando altra volta ti trasse là dov’era: se per cambiar fallace vita a vera amor non se n’oblia, io ti domando per lei, di grazia, ciò che, contemplando, a far ti fia assai cosa leggiera. Io so che, infra l’altre anime liete del terzo ciel, la mia Fiammetta vede l’affanno mio dopo la sua partita: pregala, se ’l gustar dolce di Lete non la m’ha tolta, in luogo di merzede, a sé m’impetri tosto la salita. CIII Era sereno il ciel, di stelle adorno, e i venti tutti nelle lor caverne posavono, e le nuvolette alterne resolute eron tutte intorno intorno, quand’una fiamma più chiara che ’l giorno, rimirand’io alle cose superne, veder mi parve per le strade etterne volando fare al suo loco ritorno; e di quella ver me nascer parole, le quai dicien: “Chi meco esser desia, benign’esser convien ed ubbidiente e d’umiltà vestito; e, s’altro vuole cammin tener, giammai meco non fia nel sacro regno della lieta gente”. CIV Le rime, le quai già fece sonore la voce giovinil ne’ vaghi orecchi, e che movien de’ mia pensier parecchi a quel desio che m’infiammava il core, scrivendole come dettava Amore, han fatto chiocce gli anni gravi e vecchi, poscia che morte ruppe quelli specchi, da’ quai forza prendea lo mio vigore. come il viso angelico tornossi al regno là, dond’era a noi venuto per farne fede dell’altrui bellezza, e i passi miei di drieto a lui fur mossi, né rima poi né verso m’è piaciuto, né altro che il seguir la sua altezza CV D’Omero non poté ’l celeste ingegno a pien mostrar di Elèna ’l vago riso, né Zeusi, dopo, l’alt’e bel diviso, quantunque avesse di molte il disegno: e però contro a me stesso non sdegno, se ’l glorioso ben di paradiso scriver non so, né l’angelico viso, c’ha ’l mio cor seco nel celeste regno. Ma chi desia veder quella bellezza, che sola tenne in la vita mortale, d’uom non aspetti alcun dimostramento, ma di sacra virtù s’impenni l’ale e su sen voli in la suprema altezza: lì la vedrà, e rimarrà contento. CVI Sì acces’e fervente è il mio desio di seguitar colei, che quivi in terra con il suo altero sdegno mi fé guerra infin allor ch’al ciel se ne salio, che, non ch’altri, ma me metto in oblio: e parmi nel pensier, che sovente erra, quella gravezza perder che m’atterra, e quasi uccel levarmi verso Dio: e trapassar le spere, e pervenire davanti al divin trono, infra i beati, e lei veder, che seguirla mi face, sì bella, ch’io non so poscia ridire, quando ne’ luoghi lor son ritornati gli spiriti, che van cercando pace CVII Mentre sperai e l’uno e l’altro collo trascender di Parnaso e ber dell’onde del castalio fonte e delle fronde, che già più ch’altre piacquero ad Appollo, adornarmi le tempie, umil rampollo de’ dicitori antichi, alle gioconde rime mi diedi; e ben che men profonde fosser, cantane in stil leggiero e sollo. Ma poscia che ’l cammino aspro e selvaggio, e gli anni miei già faticati e bianchi tolser la speme del mio pervenire, vinto, lasciai la speme del viaggio, le rime e i versi e i miei pensieri stanchi, ond’or non so, com’io solea già, dire. CVIII Il vivo fonte di Parnaso e quelle frondi, che furn’ad Appollo più care, m’ha fatto lungo tempo Amor cercare driet’alla guida delle vaghe stelle, che fra l’ombre salvatiche le belle Muse già fer molte volte cantare; né m’ha voluto fortuna prestare d’esser potuto pervenire ad elle. Credo n’ha colpa il mio debil ingegno, ch’alzar non può a vol sì alto l’ale, e non ha già studio o tempo perduto. Darò dunque riposo all’alma frale, e mi dorrò di non aver potuto di quelle farmi, faticando, degno. CIX Dura cosa è ed orribile assai la morte ad aspettare e paurosa, ma così certa ed infallibil cosa né fu né è né, credo, sarà mai; e ’l corso della vita è breve, ch’hai, e volger non si può né dargli posa; né qui si vede cosa sì gioiosa, che ’l suo fine non sia lagrime e guai. Dunque perché con operar valore non c’ingegniamo di stender la fama e con quella far lunghi e brevi giorni? Questa ne dà, questa ne serva onore, questa ne lieva degli anni la squama, questa ne fa di lunga vita adorni. CX Assai sem raggirati in alto mare, e quanto possan gli empiti de’ venti, l’onde commosse ed i fier accidenti, provat’abbiamo; né già il navicare alcun segno, con vela o con vogare, scampati ci ha dai perigli eminenti fra’ duri scogli e le secche latenti, ma sol Colui che, ciò che vuol, può fare. Tempo è omai da reducersi in porto e l’ancore fermare a quella pietra, che del tempio congiunse e dua parieti; quivi aspettar el fin del viver corto nell’amor di Colui, da cui s’impetra con umiltà la vita de’ quieti. CXI Quante fiate indrieto mi rimiro, m’accorgo e veggio che io ho trapassato, forse perduto e male adoperato, seguendo in compiacermi alcun desiro, tante con meco dolente m’adiro, sentendo quel, ch’a tutti sol n’è dato, esser così fuggito, anzi cacciato da me, che ora indarno ne sospiro. E so s’è conceduto che’ mia danni ristorar possa ancor di bel soggiorno in questa vita labile e meschina? Perché passato è l’arco de’ mia anni, e ritornar non posso al primo giorno, e l’ultimo già veggio s’avvicina. CXII Fuggesi il tempo, e ’l misero dolente, a cui si presta ad acquistar virtute, fama perenne ed etterna salute, el danno irreparabile non sente; ma neghittoso forma nella mente cagion all’ozio e scusa alle perdute doti, le quai poi tardi conosciute piange, tapino, e senza pro si pente. Surge col sol la piccola formica nel tempo estivo, e si raguna l’esca, di che nel fredd’avverso si nutrica. Al negligente sempre par ch’incresca: onde nel verno muore, o ch’ei mendica, e spesse volte senza lenza pesca. CXIII Fassi davanti a noi il Sommo Bene col gremb’aperto e pien de’ suoi tesori, ed, acciò che ciascuna se n’innamori, a mostrar quali e’ son sovente viene; e di signore amico ne diviene, s’aprir vogliangli i nostri freddi cuori, e spira quinci e quindi e santi ardori a raffrenar le colpe e tor le pene. E noi, protervi ritrosi e selvaggi, ci ritraiam indrieto, ed al fallace ben temporale ostinati crediamo: dal qual menati per falsi viaggi, perdian, miseri noi, l’etterna pace, e nel foco perpetuo caggiamo. CXIV Volgiti, spirto affaticato, omai, volgiti, e vedi dove sei trascorso, del desio folle seguitando ’l corso, e col piè nella fossa ti vedrai. Prima che caggi, svegliati; che fai? torna a Colui, il quale il ver soccorso a chi vuol presta, e libera dal morso della morte dolente, alla qual vai. Ritorna a Lui, e l’ultimo tuo tempo concedi almeno al suo piacer, piangendo l’opere mal commesse nel passato. Né ti spaventi il non andar per tempo, ch’Ei ti riceverà, ver te facendo quel che già fece all’ultimo locato CXV O Sol, ch’allumi l’un’e l’altra vita, e dentro al pugno tuo richiudi il mondo, poi non ti parve grave il mortal pondo per ritornarci nella via smarrita, se pietos’orazion fu mai udita, ch’al ciel venisse a te da questo fondo, a me, che ’l mio bisogno non ascondo, presta i benign’orecchi e sì m’aita. Io ho, seguendo gli terren diletti e i tuo’ comandamenti non curando, offeso spesso la tua maiestade: or mi ravveggio, come tu permetti, e di tuo corte mi conosco in bando; però, di grazia, addomando pietade. CXVI O giorioso Re, che ’l ciel governi con etterna ragione e de’ mortali sol conosci le menti, e quant’e quali e nostri pensier sien chiaro discerni, deh volgiti ver me, se tu non sperni gli umili prieghi, e l’affezion carnali da me rimuovi e sì m’impenna l’ali, che io possa volare a’ beni etterni. Lieva dagli occhi mia l’oscuro velo che veder non mi lascia lo mio errore, e me sviluppa dal piacer fallace; caccia dal petto mio il mortal gelo, e quell’accendi sì del tuo valore, che io di qui ne vegna alla tua pace CXVII Non treccia d’oro, non d’occhi vaghezza, non costume real, non leggiadria, non giovanett’età, non melodia, non angelico aspetto né bellezza poté tirar dalla sovrana altezza il Re del cielo in questa vita ria ad incarnar in te, dolce Maria, Madre di grazia e specchio d’allegrezza; ma l’umilità tua, la qual fu tanta, che poté romper ogn’antico sdegno tra Dio e noi, e far il ciel aprire. Quella ne presta adunque, Madre santa, sì che possiamo al tuo beato regno, seguendo lei devoti, ancor salire. CXVIII O luce etterna, o stella mattutina, la qual chiuder non può Borea né Austro, della nave di Pier timone, e plaustro del biforme grifon, che la divina città lasciò per farsi medicina, pria sé chiudendo nel virginal claustro, del mal che già commise il protoplaustro disubbidendo in nostra e sua rovina; volgi gli occhi pietosi allo mio stato, Donna del cielo, e non m’aver a sdegno, perch’io sia di peccati grave e brutto. Io spero in te, e ’n te sempr’ho sperato: prega per me, ed esser mi fa degno di veder teco il tuo beato frutto. CXIX O Regina degli angioli, o Maria, ch’adorni il ciel con tuoi lieti sembianti, e stella in mar dirizzi e naviganti a port’e segno di diritta via, per la gloria ove sei, Vergine pia, ti prego guardi a’ mia miseri pianti; increscati di me, tomi davanti l’insidie di colui che mi travia. Io spero in te ed ho sempre sperato: vagliami il lungo amore e reverente, il qual ti porto ed ho sempre portato. Dirizza il mio cammin, fammi possente di divenir ancor dal destro lato del tuo Figliuol, fra la beata gente. CXX Tu mi trafiggi, ed io non son d’acciaio: e s’a dir mi sospingon le punture, a dover ritrovarti le costure, credo parratti desto un gran vespaio. Deh, tu m’hai pieno, anzi colmo, lo staio; bastiti omai, per Dio, e non m’indurre a dettar versi delle tua lordure, ch’io sarò d’altra foggia, ch’io non paio. E poi che la parola uscita è fuore, indrieto ritornar non si può mai, né vale il dir: “vorrei aver creduto”. S’el ti prude la penna, il folle amore e la fortuna dan da dire assai: in ciò trastulla lo tuo ingegno acuto |