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Rime - Parte prima 081 - 100 (17) - ZaunköniG - 29.09.2012 LXXXIII S’io veggio il giorno, Amor, che mi scapestri de’ lacci tua, che sì mi stringon forte, vaga bellezza né parole accorte né alcun altri mai piacer terrestri tanto potranno, ch’io più m’incapestri e mi rimetta nelle tua ritorte: avanti andrò, fin che venga la morte, pascendo l’erbe per gli luoghi alpestri. Tu m’hai il cibo, il sonno ed il riposo e il parer uom fra gli altri ed il pensiero tolto, che io di me aver devrei, ed hami fatto del vulgo noioso favola divenire; ond’io dispero mai poter ritrovar quel ch’io vorrei. LXXXIV Sì fuor d’ogni pensier, nel qual ragione passeggi o stia, seguendo l’appetito, è il mio folle pensier del tutto uscito, che paura nol può né riprensione, né ancora colei che n’è cagione, avendo il suo bel viso assai seguito, ritrar dal corso, nel quale smarrito corro all’ultima mia destruzione. Così fa, lasso, negli anni migliori il creder troppo al fervente desio e l’invescarsi in le reti d’amore; che, quando vuol, non può poi degli errori disvilupparsi il misero, che Dio e sé offende, e vive male e muore LXXXV Quand’io riguardo me vie più che ’l vetro fragile, e gli anni fuggir com’il vento, sì pietoso di me meco divento, che dir nol porria lingua, non che metro; piangendo il tempo, ch’ho lasciat’arietro mal operato, e prendendo spavento de’ casi, i quai talora a cento a cento posson del viver tormi il cammin tetro. Né mi può doglia, per ciò, né paura la vaga donna trarre della mente, dov’Amor disegnò la sua figura. Per che, s’io non m’inganno, certamente la fine a quest’amor la sepultura darà, ed altro no, ultimamente. LXXXVI Ippocrate, Avicenna o Galieno, diamante, zafir, perla o rubino, brettonica, marrobio o rosmarino, psalmo, evangelio ed orazion vien meno; piova né vento, nuvol né sereno, mago né negromante né indovino, tartaro né giudeo né saracino, né povertà né doglia, ond’io son pieno, poteron mai del mio petto cacciare questo rabbioso spirito d’amore, ch’a poco a poco alla morte mi tira. Ond’io non so che mi debba sperare; ed ei d’ogn’altro affan mi caccia fuore, come vuol, m’affligge e mi martira LXXXVII S’Amor, li cui costumi già molt’anni con sospiri ’nfiniti provat’hai, t’è or più grave che l’usato assai, perché, seguendol, te medesmo inganni, credendo trovar pace tra gli affanni? perché da lui non ti scavresti omai? perché nol fuggi? e forse ancor avrai, libero, alcun riposo de’ tua danni. Non si racquista il tempo che si perde per perder tempo, né mai lagrimare per lagrimar restette, com’uom vede. Bastiti ch’ad Amor il tempo verde, misero, desti, ed ora, ch’a imbiancare cominci, di te stesso abbi mercede. LXXXVIII Grifon, lupi, leon, bisce e serpenti, draghi, leopardi, tigri, orsi e cinghiari, disfrenati cavai, tori armentari, rabbiosi can, tempeste e discendenti folgori, tuoni, impetuosi venti, ruine, incendi, scherani e corsari, discorridori armati e sagittari soglion fuggir le paurose genti: ma io, che non son tal, perché discerno com’orribil fuggirmi a chi non torna, fuggita, se non vede dipartirme? forse son io el diavol dell’inferno? e crederrel s’io avessi le corna, poiché così a costei veggio fuggirme! LXXXIX Poco senn’ha chi crede la fortuna o con prieghi o con lacrime piegare, e molto men chi crede lei fermare con senno, con ingegno, o arte alcuna. Poco senn’ha chi crede atar la luna a discorrer il ciel per suo sonare, e molto men chi ne crede portare, morendo, seco l’or che qui raguna. Ma più ch’altri mi par matto colui ch’a femina, qual vogli, il suo onore, sua libertà e la vita commette. Elle donne non son, ma doglia altrui, senza pietà, senza fé, senz’amore, liete del mal di chi più lor credette. XC “Era ’l tuo ingegno divenuto tardo e la memoria confusa e smarrita e l’anima gentil quasi invilita driet’al riposo del mondo bugiardo; quando t’accese ’l mio vago riguardo e suscitò la virtù tramortita, tanto ch’io t’ho condotto ove s’invita al glorioso fin ciascun gagliardo. In te sta el venir, se l’intelletto aggiungi, driet’a me, che la corona ti serbo delle frondi tanto amate. Che farai? vienne!” mi dice nel petto la donna per la quale Amor mi sprona: ed io mi sto, tant’è la mia viltate XCI Infra l’eccelso coro d’Elicona mi trasportò l’altr’ieri il mio ardire; là dove, attento standomi ad udire ciò che in quel s’adopra e si ragiona, qual forse già fu la lacona donna di Paris, una ninfa uscire d’un lieto bosco e verso me venire co’ crin ristretti da verde corona. A me venuta disse: “Io son colei che fo di chi mi segue il nome etterno, e qui venuta sono ad amar presta; lieva su, vieni!”; ed io, già di costei acceso, mi levai: ond’io, d’inferno uscendo, entrai nell’amorosa festa. XCIII Fuggit’è ogni virtù, spent’è il valore che fece Italia già donna del mondo, e le Muse castalie son in fondo, né cura quas’alcun del lor onore. Del verde lauro più fronda né fiore in pregio sono, e ciascun sotto il pondo dell’arricchir sottentra, e del profondo surgono i vizi triunfando fore. Per che, se i maggior nostri hanno lasciato il vago stil de’ versi e delle prose, esser non deti maraviglia alcuna. Piangi dunque con meco il nostro stato, l’uso moderno e l’opre viziose, cui oggi favoreggia la fortuna. XCIV Apizio legge nelle nostre scole e ’l re Sardanapalo, e lor dottrina di gran lunga è preposta alla divina dagli ozi disonesti e dalle gole. E verità né in fatti né in parole oggi si truova, e ciaschedun inchina all’avarizia sì com’a reina, la quale in tutto può ciò che la vuole. Onestà s’è partita e cortesia, ed ogn’altra virtù è al ciel tornata, ed insieme con esse leggiadria dalle villane menti discacciata; ma quanto questo per durar si sia, Iddio sel sa, ch’ad ogni cosa guata XCV Saturno al coltivar la terra puose già lungo studio, e Pallade lo ingegno alle meccaniche arti, ed Ercul degno si fé di etterna fama l’orgogliose fiere domando; e l’opre virtuose de’ buon Romani el nome loro e ’l regno ampliar ultra ad ogni mortal segno, e d’Alessandro le imprese animose. Così filosofia fece Platone, Aristotele ed altri assai famosi, ed Omero e Vergilio i versi loro. Oggi seria reputato un montone chi torcesse el camin dalli studiosi di perder tempo ad acquistar tesoro. XCVI Tanto ciascun ad acquistar tesoro con ogni ingegno s’è rivolto e dato, che quasi a dito per matto è mostrato chi con virtù seguisce altro lavoro. Per che costante stare infra costoro oggi conviensi, nel mondo sviato, a chi, come tu fosti, è infiammato, Febo, del sacro e glorioso alloro. Ma perché tutto non può la virtute ciò ch’ella vuol, senza il divino aiuto, a te ricorro, e prego mi sostegni contra li fati avversi a mia salute, dopo il giusto affanno, il già canuto capo d’alloro incoronar ti degni XCVII Sovra li fior vermigli e’ capei d’oro veder mi parve un foco alla Fiammetta, e quel mutarsi in una nugoletta lucida più che mai argento o oro. E qual candida perla in anel d’oro, tal si sedeva in quella un’angioletta, voland’al cielo splendida e soletta, d’oriental zafir vestita e d’oro. Io m’allegrai, alte cose sperando, dov’io dovea conoscer che a Dio in breve era madonna per salire, come poi fu: ond’io qui, lagrimando, rimaso sono in doglia ed in desio di morte per potere a lei salire. XCVIII Parmi tal volta, riguardando il sole, assai più che l’usato acceso; per ch’io con meco dico: “Forse esteso si siede in quello il mio fervente sole, il quale agli occhi miei sempre fu sole poscia ch’io fui ne’ lacci d’amor preso; per certo ei v’è: però di tanto peso son ora e raggi di quest’altro sole”. E sì nel cor s’impronta esto pensero, che mi pare veder, guardando in esso, sì come aquila face, intento e fiso, la fiamma mia, e d’essa assai intero ogni contegno, e conoscer da presso li capei d’oro e crespi ed il bel viso. XCIX Dormendo, un giorno, in sonno mi parea quasi pennuto volar verso il cielo drieto all’orme di quella, il cui bel velo cenere è fatto, ed ella è fatta dea. Quivi sì vaga e lieta la vedea, ch’arder mi parve di più caldo gelo ch’io non solea, e dileguarsi il gelo ch’in pianto doloroso mi tenea. guardando, l’angelica figura la man distese, come se volesse prender la mia; ed io mi risvegliai. Oh quanta fu la mia disavventura! Chi sa, se ella allor preso m’avesse, e s’io quaggiù più ritornava mai? C Se la fiamma degli occhi, ch’or son santi e che per me fur dardi e poi catene, mortificasse alquanto le mia pene e rasciugasse e grevi e lunghi pianti, io udirei quelli angelici canti, ch’ode chi vede il sommo e vero bene, né vagando anderei drieto alla spene, ch’in questa vita molti ne fa erranti. Ma essa, etterna, le cose mortali disdegna, e ride del pensier fallace, che mi sospinge dov’ognor più ardo; per che temo che mai alle mia ali non verran penne, che a tanta pace levar mi possan dal mondo bugiardo. |