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Rime - Parte prima 061 - 080 (12) - ZaunköniG - 29.09.2012 LXI Intra ’l Barbaro monte e ’l mar Tirreno sied’il lago d’Averno intorniato da calde fonti, e dal sinistro lato gli sta Pozzuolo ed a destro Miseno; il qual sent’ora ogni suo grembo pieno di belle donne, avendo racquistato le frondi, la verdura e ’l tempo ornato di feste, di diletto e di sereno. Questi con la bellezza sua mi spoglia ogn’anno, nella più lieta stagione, di quella donna ch’è sol mio desire. A sé la chiama, ed io, contra mia voglia, rimango senza il cuore, in gran quistione qual men dorriemi, il viver o ’l morire. LXII Toccami ’l viso zefiro tal volta più che l’usato alquanto impetuoso, quasi se stesso allora avesse schiuso dal cuoi’ d’Ulisse, e la catena sciolta. E poi che l’alma tutt’ha in sé raccolta, par ch’e’ mi dica: “Leva il volto suso; mira la gioia ch’io, da Baia effuso, ti porto in questa nuvola rinvolta”. Io lievo gli occhi, e parmi tanto bella veder madonna entr’a quell’aura starse, che ’l cor vien men sol nel maravigliarse. com’io veggio lei più presso farse, lievomi per pigliarla e per tenella: e ’l vento fugge, ed essa spare in quella LXIII E Cinzio e Caucaso, Ida e Sigeo, Libano, Sena, Carmelo ed Ermone, Athos, Olimpo, Pindo e Citerone, Aracinto, Menalo, Ismo e Rifeo, Etna, Pachin, Peloro e Lilibeo, Vesevo, Gauro, Massich’e Caulone, Apennin, l’Alpi, Balbo e Borione, Atlante, Abila, Calpe e Pireneo, o qualunqu’altro monte, ombre giammai ebber cotanto grate a’ lor pastori, quant’a me furon quelle di Miseno: nelle quai sì benigno Amor trovai, che refrigerio diede a’ mia ardori e ad ogni mia noia pose freno. LXIV Colui per cui, Misen, primieramente foste nomato, cui ceneri ancora sparte nella tua terra fan dimora e faran, credo, perpetualmente, 5 facea trombando inanimar la gente e ad arme ed a guerra, d’ora in ora, e de’ legni d’Enea di poppa in prora batter il mar co’ remi virilmente. Ma tu di pace e d’amor e di gioia sei fatto grembo e dilettoso seno, degno d’etterno nome e di memoria. Ben lo so io, ch’in te ogni mia noia lasciai, e femmi d’allegrezza pieno colui ch’è sire e re d’ogni mia gloria LXV Se io temo di Baia e il cielo e il mare, la terra e l’onde e i laghi e le fontane e le parti domestiche e le strane, alcun non se ne dee maravigliare. Quivi s’attende solo a festeggiare con suoni e canti, e con parole vane ad inveschiar le menti non ben sane, o d’amor le vittorie a ragionare. Ed havvi Vener sì piena licenza, che spess’avvien che tal Lucrezia vienvi, che torna Cleopatra allo suo ostello. Ed io lo so, e di quinci ho temenza, non con la donna mia sì fatti sienvi, che ’l petto l’aprino ed intrinsi in quello. LXVI Ben che si fosse, per la tuo’ partita, l’alta speranza, la qual io prendea de’ tuo’ vaghi occhi, qualor gli vedea, giovine bella, quasi che fuggita, pur sostenea la deboletta vita un soave pensier, che mi dicea, quando di ciò con meco mi dolea: “Tosto sarà ormai la suo’ reddita!” Ma ciò mai non avvene, e me partire or convien contra grado, né speranza di mai vederti mi rimane alcuna. Onde morrommi, caro mio disire, e piangerò, il tempo che mi avanza, lontano a te, la mie’ crudel fortuna. LXVII Poscia che gli occhi mia la vaga vista hanno perduta, il cui lieto splendore ciaschedun mio desir caldo d’amore facea contento in questa valle trista, dove più noia chi più vive acquista, non curo omai se del dolente core, alma, ten vai, perciò che ’l mio dolore non regolerà mai discreto artista. Anzi ten va, ch’io, che solea cantare, non vo’ pascer l’invidia di coloro a’ quai doler solea la mia letizia. Vatten adunque omai, non aspettare d’esser cacciata, ed altrove ristoro prendi, se puoi, di questa mia trestizia. LXVIII Deh, quanto è greve la mia sventura e mobile più ch’altro il viver mio! Io piango spesso con tanto disio quant’alcun rida: e mentre il pianto dura, vien nella mente mia quella figura che più ch’altro mi piace, sallo Iddio; quivi col lieto aspetto vago e pio conforta ’l core e l’alma rassicura, dicendo cose, ch’ogni spiritello smarrito surge lieto e pien d’amore, e me fan più ch’alcun altro contento. Di quinci nasce chi dal viso bello mi mostra esser lontano, onde ’l dolore torna più fier che prima per l’un cento LXXII Perir possa il tuo nome, Baia, e il loco, boschi selvaggi le tua piagge sieno, e le tua fonti diventin veneno, né vi si bagni alcun molto né poco: in pianto si converta ogni tuo gioco, e suspetto diventi el tuo bel seno a’ naviganti: il nuvolo e ’l sereno in te riversin fumo, solfo e fuoco; ché hai corrotto la più casta mente che fosse ’n donna, con la tua licenza, se ’l ver mi disser gli occhi non è guari; laond’io sempre viverò dolente, come ingannato da folle credenza: or foss’io stato cieco non ha guari! LXXIII O miseri occhi miei più ch’altra cosa, piangete omai, piangete, e non restate: voi di colei le luci dispietate menasti pria nell’anima angosciosa, ch’ora disprezza; voi nell’amorosa pregion legaste la mia libertate; voi col mirarla più raccendavate il cor dolente, ch’or non truova posa. Dunque piangete, e la nemica vista di voi spingete col pianger più forte, sì ch’altro amor non possa più tradirvi. Questo desia e vuol l’anima trista, perciò che cose grave più che morte l’ordisti già incontro nel seguirvi LXXIV Cader postù in que’ legami, Amore, ne’ quai tu n’hai già molti avviluppati; rotte ti sien le braccia, ed ispuntati gli artigli e l’ali spennate e ’l vigore tolto, e la deità tua sia ’n orrore a quei che nasceran e che son nati, e sianti l’arco e gli strali spezzati, e il tuo nome sia sempre dolore: bugiardo, traditore e disleale, frodolente, assassin, ladro, scherano, crudel tiranno, spergiuro, omicida; ché dopo il mio lungo servire invano mi proponesti tal, ch’assai men vale: caggia dal ciel saetta che t’occida. LXXX “L’arco degli anni tuoi trapassat’hai, cambiato il pelo e la virtù mancata, di questa tuo picciola giornata già verso ’l vespro camminando vai; buono è adunque amor lasciare omai, e a pensar dell’ultima posata” dice l’anima seco, innamorata, qualor punta è da non usati guai. Ma come l’ombra vede di colei, non vo’ dir gli occhi, che nel mondo venne per dar sempre cagione a’ sospir miei, così all’alto vol si trae le penne, e’ passi volge tutti a seguir lei, come fé già quando me’ si convenne. |