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Rime - Parte prima 021 - 040 (18) - ZaunköniG - 28.09.2012 XXI Biasiman molti spiacevoli Amore e dicon lui accidente noioso, pien di spavento, cupido e ritroso, e di sospir cortese donatore. Né vede di costoro il cieco errore come proceda il suo valor nascoso, nell’uom prudente giusto ed animoso, per bene operar, volere onore. Come costui nell’anima gentile pronto si pon per valoroso obbietto, così la rende cortese ed umìle. Ornarsi di costumi è ’l suo diletto; fugge come nimico ogn’atto vile: chi dunque de cessar starli subbietto? XXIII Questo amoroso fuoco è sì soave, che tuttora ardo e parmi crescer vita; ma vedo ben che, se ’l ciel non m’aita, rotta è fra duro scoglio la mia nave. Tal mi tien chiuso sotto a mille chiave, che, con sua faccia angelica e polita, or pena etterna or dolcezza infinita mi mostra; or m’assicurà ora mi spave. Così del mio fin dubbio ardendo spero nel fuoco rinnovar come fenice, e questo d’ogni doglia è medicina. Né posso, a mio giudicio, dir con vero che per cosa terrena esser felice io cerchi, ma d’effige alta e divina XXIV Quello spirto vezzoso, che nel core mi misero i begli occhi di costei, parla sovente con meco di lei leggiadramente, e simile d’Amore. E poi del suo animoso fervore una speranza crea ne’ pensier miei, che sì lieto mi fa, ch’io mi potrei beato dir s’ella stesse molt’ore. Ma un tremor, da non so che paura 10 nato, lo scaccia e rompe in mezzo il porto, ch’aver preso credea, di mia salute; e veggio aperto ch’alcun ben non dura lunga stagione in questo viver corto, quantunque possa natural virtute. XXV Quante fiate per ventura il loco veggio là dov’io fui da Amore preso, tanto mi par di nuovo esser acceso da un desio più caldo assai che ’l foco; e poi che quello ho riguardato un poco e stato alquanto sovra me sospeso, dico: “Se tu ti fosse qui difeso, non sarest’or, per merzé chieder, fioco. Adunque piangi, poi la libertate avevi nelle man lasciata hai andare per donna vaga, e di poca pietate”. Poi mi rivolgo, e dico che lo stare subbietto a sì mirabile biltate è somma e lieta libertate usare. XXVI “A quella parte ov’io fui prima accesa del piacer di colui, che mai del core non mi si partirà, sovente Amore mi tira, né mi val farli difesa. Quindi rimiro lui, tutta sospesa, in giù e ’n su, pregandol, se ’l valore suo sempre cresca, che ’l vago splendore mi mostri del mio ben, che m’ha sì presa. Il qual s’avvien che io veggia per grazia, 10 contenta dentro mi ritraggo un poco, lodando Iddio, Amore e la fortuna; e mentre che d’averlo visto sazia esser mi credo, raccender il foco sento di rivederlo e torno in una”. XXVII Quando s’accese quella prima fiamma dentro da me, che ’l cor mi munge ed arde, io solia dir talor: “Questa non arde come suol arder ciascun’altra fiamma; 5 anzi conforta, sospinge ed infiamma a valor seguitar chiunque ella arde: per che de esser contento, in cui ella arde, di più fin divenir in cotal fiamma”. Ma il cor, già carbon fatto in questo foco, senza pace sperar, in tristo pianto, ha mutata sentenzia e chiede morte. E non trovando lei in cotal foco, ora rovente ed or bagnato in pianto, si sta in vita assai peggior che morte. XXVIII Misero me, ch’io non oso mirare gli occhi ne’ quali stava la mia pace; però che, come il ghiaccio si disface al sol, così mi sento il cor disfare per soverchio disio nel riguardare: e s’altro miro, tanto mi dispiace, ch’un gel noioso vienmi, il qual mi face di morte spesse volte dubitare. Fra questi estremi sto, né so che farmi: 10 o arder tutto, lor mirando fiso, o di freddo morire, altro guardando. L’un mi duol men, ma troppo grave parmi da cui salute spero esser ucciso, e più duro mi par morir guardando! XXIX S’io ti vedessi, Amor, pur una volta l’arco tirare e saettar costei, forse ch’alcuna speme prenderei di pace ancor, della mia pena molta; ma perché baldanzosa, lieta e sciolta la veggio e te codardo inver di lei, non so ben da qual parte i dolor miei s’aspettin fine, o l’anima ricolta. Ogni suo atto impenna un de’ tuo’ strali; che diss’io un? ma cento: ed il tuo arco ognor a trapassar mi par più forte. Vedi ch’io son senz’armi, diseguali al poter tuo, e, se non chiudi il varco, l’anima mia, ch’è tua, sen vola a morte XXX Trovato m’hai, Amor, solo e senz’armi là dove più armato ed avveduto sei, credo, per uccidermi venuto, col favor di costei, ch’in disertarmi aguzza le saette che passarmi deono il cor; ma, poi che fia saputo, certo son ne sarai da men tenuto d’aver voluto pur così disfarmi. Poco onor ti sarà, s’io non m’inganno, ferir, vincer, legar, uccider uno che far non puote inver di te difesa. Ma tu, che ad onor rispetto alcuno non avesti giammai, del mio gran danno ti riderai, ed io m’avrò l’offesa. XXXI “Che fabrichi? che tenti? che limando vai le catene, in che tu stesso entrasti”, mi dice Amore, “e te stesso legasti senza mio prego e senza mio comando? Che latebra, che fuga vai cercando di drieto a me, al qual tu obbligasti la fede tua, allor che tu mirasti l’angelica bellezza desiando? O stolte menti, o animali sciocchi! poi che t’avrai co’ tua inganni sciolto e volando sarai fuggito via, una parola, un riso, un muover d’occhi, un dimostrarsi lieto il vago volto farà tornarti più stretto che pria”. XXXII Pallido, vinto e tutto transmutato dallo stato primier quando mi vede la nemica d’amore e di mercede, nelle cui reti son preso e legato, quasi di ciò che io ho già contato del suo valor, prendendo intera fede, lieta più preme il cor ch’ella possede, indi sperando nome più pregiato. Ond’io stimo che sia da mutar verso, pur ch’Amor mel consenta, e biasimare ciò che io scioccamente già lodai. Forse diverrà bianco il color perso, e per lo non ben dir potrò impetrare, per avventura, fine alli mia guai. XXXIV Quando posso sperar che mai conforme divenga questa donna a’ desir miei ch’ancor con prieghi impetrar non potei dal sonno, mostrator di mille forme, ch’in sogn’almen, dov’ella lascia l’orme, mi dimostrasse: e contento sarei, poich’io non posso più riveder lei, che crudel cerca, lasso! in terra porme. Allora certo, quando torneranno li fiumi a’ monti, ed i lupi l’agnelle dagli ovil temorosi fuggiranno. Dunque uccidimi, Amore, acciò che quelle luci che fur principio del mio danno, del morir mio ridendo, sien più belle. XXXV Se quella fiamma che nel cor m’accese ed or mi sface in doloroso pianto, fosse ver me pietosa pur alquanto, e del mostrarsi un poco più cortese, ancora spererei trovar difese alla mia vita, che m’è in odio tanto, e’ sospir grevi rivolger in canto e poter perdonar le fatte offese. Ma perché, come Febo fuggì Dane, così costei d’ogni parte mi fugge e niega agli occhi miei il suo bel lume, troppo invescata in l’amorose pane la mia vita cognosco che si strugge, e ’l cor diventa di lagrime fiume XXXVI Scrivon alcun Partenopè, sirena ornata di bellezze e piena d’arte, aver sua stanza eletta in questa parte tra il colle erboso e la marina rena, e qui lasciata ancor d’età non piena le membra sua, che or son cener sparte, e il nome suo in più felice carte e in questa terra fertile ed amena. E com’a le’ fu il ciel mite e benigno, così alle poi nate par che sia: ed io, miser a me, sovente il provo, veggendo bella la nemica mia vincer ogni mia forza col suo ingegno, ver me mostrando sempre sdegno novo. XXXVII Vetro son fatti i fiumi, ed i ruscelli gli serra di fuor ora la freddura; vestiti son i monti e la pianura di bianca neve e nudi gli arbuscelli, l’erbette morte, e non cantan gli uccelli per la stagion contraria a lor natura; Borea soffia, ed ogni creatura sta chiusa per lo freddo ne’ sua ostelli. Ed io, dolente, solo ardo ed incendo in tanto foco, che quel di Vulcano a rispetto non è una favilla; e giorno e notte chiero, a giunta mano, alquanto d’acqua al mio signor, piangendo, né ne posso impetrar sol una stilla XXXVIII Pervenut’è, insin nel secul nostro, che tante volte il cuor di Prometeo con l’altre parti dentro si rifeo, di quante se ne pasce un duro rostro; il che parria forse terribil mostro, se non fesse di me simil trofeo sovent’Amor, ch’a scriverlo poteo far del mio lagrimar penna ed inchiostro. Io piango, e sento ben che ’l cor si sface; ed allor, quand’egli è per venir meno, debile, smunto e punto per l’affanno, o Dio! nascoso sento che ’l riface el mio destin: laonde etterne fieno le pene che mi disfano e rifanno. XXXIX Sì tosto come il sole a noi s’asconde e l’ombra vien, che ’l suo lume ne toglie, ogn’animale in terra si raccoglie al notturno riposo, insin che l’onde di Gange rendon con le chiome bionde al mondo l’aurora, e le lor doglie, i duri affanni e l’amorose voglie soave sonno allevia o le confonde. Ma io, come si fa il ciel tenebroso, sì gran pianto per gli occhi mando fore, che tanta acqua non versan dua fontane; né dormir, né speranza alcun riposo posson prestare al mio crudel dolore: così m’affligge Amor fin la dimane XL Chi nel suo pianger dice che ventura avversa gli è al suo maggior disio, e chi l’appone scioccamente a Dio, e chi accusa Amore e chi la dura condizion della donna che, pura, forse non sente l’appetito rio, e chi del cielo fa rammarichio, non conoscendo sé, di sua sciagura. Ma io, dolente, solo agli occhi miei ogni mia doglia appongo, che fur porte all’amorosa fiamma che mi sface. Se stati fosser chiusi, ancor potrei signor di me contrastar alla morte, la qual or chiamo per mia dolce pace |