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Rime - Parte prima 001 - 020 (19) - ZaunköniG - 27.09.2012 Parte prima I Intorn’ad una fonte, in un pratello di verdi erbette pieno e di bei fiori, sedean tre angiolette, i loro amori forse narrando, ed a ciascuna ’l bello viso adombrava un verde ramicello ch’i capei d’or cingea, al qual di fuori e dentro insieme i dua vaghi colori avvolgeva un suave venticello. E dopo alquanto l’una alle due disse (com’io udi’): “Deh, se per avventura di ciascuna l’amante or qui venisse, fuggiremo noi quinci per paura?”. A cui le due risposer: “Chi fuggisse, poco savia saria, con tal ventura!”. II All’ombra di mill’arbori fronzuti, in abito leggiadro e gentilesco, con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco lacci tendea, da lei prima tessuti de’ suoi biondi capei crespi e soluti al vento lieve, in prato verde e fresco, una angiolella; a’ quai giungeva vesco tenace Amor, ed ami aspri ed acuti. Da’ quai, chi v’incappava lei mirando, invan tentava poi lo svilupparsi, tant’era l’artificio che i teneva. Ed io lo so, che ’n me di me fidando più che ’l dovere, infra e lacciuoli sparsi fui preso da virtù ch’io non vedeva. III Il Cancro ardea, passata la sest’ora, spirava zefiro e il temp’era bello, quieto il mar, e in sul lito di quello, in parte dove il sol non era ancora, vid’io colei, che ’l ciel di sé innamora, en più donne far festa: e l’aureo vello le cingea ’l capo in guisa che capello del vago nodo non usciva fuora. Nettuno, Glauco, Forco e la gran Teti dal mar lei riguardavan sì contenti, che dir parevon: “Giove, altro non voglio”. Io, da un ronchio, fissi agli occhi lieti sì adoppiati aveva e sentimenti, ch’un sasso paravamo io e lo scoglio. IV Guidommi Amor, ardendo ancora il sole, sopra l’acque di Giulio, in un mirteto, ed era il mar tranquillo e il ciel quieto, quantunque alquanto zefir, come suole, movesse agli arbuscei le cime sole: quando mi parve udire un canto lieto tanto, che simil non fu consueto d’udir giammai nelle mortali scuole. Per ch’io: “Angela forse, o ninfa, o dea canta con seco in questo loco eletto”, meco diceva, “degli antichi amori”. Quinci madonna in assai bel ricetto del bosco ombroso, in sull’erbe e in su’ fiori, vidi cantando, e con altre sedea V Non credo il suon tanto soave fosse che gli occhi d’Argo tutti fé dormire, né d’Anfion la citara a udire quando li monti a chiuder Tebe mosse, né le sirene ancor quando si scosse invano Ulisse provvido al fuggire, né altro, se alcun se ne può dire forse più dolce, o di più alte posse: quant’una voce ch’io d’un’angioletta udii, che lieta i suoi biondi capelli cantand’ornava di fronde e di fiori. Quindi nel petto entrommi una fiammetta, la qual, mirando li sua occhi belli, m’accese il cor in più di mill’ardori. VI Sulla poppa sedea d’una barchetta, che ’l mar segando presta era tirata, la donna mia con altre accompagnata, cantando or una or altra canzonetta. Or questo lito ed or quest’isoletta, ed ora questa ed or quella brigata di donne visitando, era mirata qual discesa dal cielo una angioletta. Io, che seguendo lei vedeva farsi da tutte parti incontro a rimirarla gente, vedea come miracol nuovo. Ogni spirito mio in me destarsi sentiva, e con amor di commendarla sazio non vedea mai il ben ch’io provo. VII Chi non crederà assai agevolmente, s’al canto d’Arion venne il delfino facendo sé al suo legno vicino, al suo comando presto ed ubbidiente, che, solcando costei il mar sovente in breve barca, nel tempo più fino, alla voce del suo canto divino molti ne venghin desiosamente? E quas’a ciò da Nettuno mandati circondan quella, e ogni cosa sinestra cacciando indrieto, ed onde e tempestate. O orecchi felici, o cuor beati, a’ quali è la fortuna tanto destra, che d’ascoltarla fatti degni siate! VIII Quel dolce canto col qual già Orfeo Cerbero vinse e il nocchier d’Acheronte, o quel con ch’Anfion dal duro monte tirò li sassi al bel muro dirceo; o qual dintorn’al fonte pegaseo cantar più bel, color che già la fronte s’ornar d’alloro, con le Muse conte uomo lodando, o forse alcuno deo: sarebbe scarso a commendar costei, le cui bellezze assai più che mortali ed i costumi e le parole sono. Ed io presumo in versi diseguali di disegnarle in canto senza suono! Vedete se son folli i pensier miei! IX Candide perle, orientali e nuove, sotto vivi rubin chiari e vermigli, da’ quali un riso angelico si muove che sfavillar sotto due neri cigli sovente insieme fa Venere e Giove, e con vermiglie rose i bianchi gigli misti fa il suo colore in ogni dove, senza che arte alcuna s’assottigli: i capei d’oro e crespi un lume fanno sovra la lieta fronte, entr’alla quale Amore abbaglia della meraviglia; e l’altre parti tutte si confanno alle predette, in proporzione eguale, di costei ch’i ver angioli simiglia. X Se bionde trecce, chioma crespa e d’oro, occhi ridenti, splendidi e soavi, atti piacevoli e costumi gravi, sentito motteggiare, onesto e soro parlar in donna, com’in suo tesoro, pose natura mai o finser savi: tutt’è ’n costei, Amor, in cui le chiavi della mia pene desti e del ristoro. Dunque, se io sovente ne sospiro, non mi riprenda chi la mia speranza non vede posta in premio del martiro. Questa li mia pensier urge ed avanza con gli occhi sua a sì alto desiro, che nulla più sentir have ’n possanza. XI Quella splendida fiamma, il cui fulgore m’aperse prima l’amorosa via, m’incende sì, qualor l’anima mia vola colà dove la chiama Amore, che ’l troppo lume el debile valore degli occhi abbaglia sì, ch’ella si svia dal debito sentier, e dove sia né sa, né vede, d’ogni ragion fuore. E mentre così erra tremebonda, fa di me rider chi allor mi vede, e tal fiata alcun muove a pietate. Laonde segue che ’l desio, ch’abbonda, discuovre ciò che nasconder si crede la disviata fuor di libertate. XII Quell’amorosa luce, il cui splendore per li miei occhi mise le faville, che dentr’al cor andando a mille a mille, di lei la forma e la luce d’Amore, 5 questa per donna e colui per signore, lasciaronvi, non posson le pupille soffrir talor per l’acute postille ch’accese vengon più del suo valore. Onde, contra mia voglia, s’io non voglio 10 lei riguardando perder di vederla, in altra parte mi convien voltare. O grieve caso ond’io forte mi doglio: colei, cui cerco di veder poterla sempre, non posso poi lei riguardare! XIII Il folgor de’ begli occhi, el qual m’avvampa il cor qualor io gli riguardo fiso, m’è tanto nella mente, ov’io l’ho miso spesso, segnato con etterna stampa, ch’invan, caro signore, ogn’altra vampa ver me saetti del tuo paradiso: questo m’alleggia, questo m’ha conquiso, questo m’uccide, questo ancor mi scampa. Dunque, ti prego, al tuo arco perdona, e bastiti per una avermi preso, ch’assai è gran legame questo e forte; e mentre ’l tuo valor la sua persona farà più bella, sì com’è testeso, mai non mi scioglierà se non la morte. XIV Il gran disio che l’amorosa fiamma nel cuor m’accese nei miei miglior anni, e tiene ancor crescendo ciascun giorno e terrà forse insino all’ultim’ora, 5 tolto ha da me ciascun altro desire: e com’ li piace mi si fa seguire. .................................. XV Mai non potei, per mirar molto fiso i rossi labbri e gli occhi vaghi e belli, il viso tutto e gli aurei capelli di questa, che m’è in terra un paradiso, nell’intelletto comprender preciso qual più mirabil si fosse di quelli: come ch’io stimo di preporre ad elli l’angelico leggiadro e dolce riso. Nel qual, quando scintillan quelle stelle che la luce del sol fanno minore, par s’apra il cielo e rida il mondo tutto. Ond’io, che tutto ’l cor ho dritto a quelle, esser mi tengo molto di megliore, sentend’in terra sì celeste frutto. XVI Le parole soave e ’l dolce riso, la treccia d’oro, che ’l cor m’ha legato e messo nelle man che m’hanno ucciso già mille volte e ’n vita ritornato di nuovo, sì ’l petto infiammato, che tutto il mio desire al vago viso rivolto s’è, ed altro non grato che di vederlo e di mirarlo fiso. In quel mi par veder quant’allegrezza che fa beati gli occhi de’ mortali, che si fan degni d’etterna salute. In quel risplende chiara la bellezza che ’l ciel adorna e che n’impenna l’ali all’alto vol con penne di virtute. XVII Spesso m’avvien ch’essendom’io raccolto co’ miei pensier partito dalla gente, senza donde veder, nella mia mente sen vien colei nel cui celeste volto la mia salute sta, e che disciolto ne’ legami d’amor soavemente con gli occhi sua mi pose, e lietamente a sé tir’ogni spirto altrove volto. Poi ragionand’a lor fa riguardare la sua virtù, la bellezza e ’l valore, de’ quai più ch’altra l’ha dotata Dio; dond’un piacer mi nasce, el qual mi pare che rechi seco ciò che puote Amore, e sol accenda a ben far il disio. XVIII Com’io vi veggo, bella donna e cara, così mi sento per gli occhi passare una soavità, la qual mi pare che del cor cacci ogni passione amara, e pongavi un desio, el qual rischiara ogni pensier turbato e che stimare mi fa voi di bellezza trapassare al mond’ogn’altra, sola, unica, o cara. E quivi lodo la fortuna mia ed Amor che a voi mi fé subbietto, come m’apparve la vostra figura. Né più oltre la mia mente desia, che di poter con onestà diletto prestar a così bella creatura. XIX Con quanta affezion io vi rimiri, a voi non posson celar gli occhi miei, li quai de’ vostri, sì com’io vorrei, credon, quei riguardando, trar sospiri, che portin pace a ben mille martiri, che nascon del desio, ch’io non potei quel dì frenar, ch’è arbitrio degli dei, d’entrar per voi negli amorosi giri. E se quei, che nel mio petto portaro con amore speranza, non mi sono benigni, da cui dunque aspetto pace? Io non dimando al vostro onor contraro, ma mi facciate d’un sospiro dono, il qual mitighi il foco che mi sface. XX Sì dolcemente a’ sua lacci m’adesca Amor, con gli occhi vaghi di costei, che, quanto più m’allontano da lei, più vi tira ’l desio e più l’invesca: per ch’io non veggio come mai me n’esca, e certo riuscirne non vorrei, tanto contenta tutti e desir miei i suoi costumi e l’onestà donnesca. Chi vuol si doglia e piangasi d’Amore, ch’io me ne lodo per insino ad ora, se più non m’arde il caro signor mio; e benedico quel vago splendore che ’l cor sì dolcemente m’innamora, allumandomi sì, ch’io son più ch’io. |