Sonett-Forum

Normale Version: Rime 141 - 160 (19)
Du siehst gerade eine vereinfachte Darstellung unserer Inhalte. Normale Ansicht mit richtiger Formatierung.
CXLI.

Casa, in cui le virtuti han chiaro albergo,
e pura fede e vera cortesia,
e lo stil, che d’Arpin sì dolce uscia,
risorge, e i dopo sorti lascia a tergo,

s’io movo per lodarvi e carte vergo,
presontuoso il mio penser non sia:
ché mentre e’ viene a voi per tanta via,
nel vostro gran valor m’affino e tergo.

E forse ancora un amoroso ingegno,
ciò leggendo, dirà: — più felici alme
di queste il tempo lor certo non ebbe.

Due città senza pari e belle et alme
le dier al mondo, e Roma tenne e crebbe.
Qual può coppia sperar destin più degno? —

CXLIII.

Adunque m’hai tu pur, in sul fiorire
morendo, senza te, frate, lasciato,
perché ‘l mio dianzi chiaro e lieto stato
ora si volga in tenebre e ‘n martire?

Gran giustizia era e mio sommo desire,
da me lo stral avesse incominciato,
e come al venir qui son primo stato,
ancora stato fossi al dipartire.

Ché non arei veduto il mio gran danno:
di me stesso sparir la miglior parte;
e sarei teco fuor di questo affanno.

Or ch’io non ho potuto inanzi andarte,
piaccia al Signor, a cui non piace inganno,
ch’io possa in breve e scarco seguitarte.

CXLIV.

Leonico, che ‘n terra al ver sì spesso
gli occhi levavi e ‘l penser dotto e santo,
et or nel cielo il guiderdon promesso
ricevi al tuo di lui studio cotanto,

a te non si conven doglia né pianto,
ch’omai pien d’anni e pago di te stesso
chiudi il tuo chiaro dì, ma festa e canto
del grande a la tua vita onor concesso.

Qual da la mensa uom temperato e sazio,
ti diparti dal mondo, e torni a lui,
che t’ha per nostro ben tardo ritolto.

Conviensi a me, che non ho più, con cui
sì securo fornir quel poco o molto,
che de la dubbia via m’avanza, spazio

CXLV.

Navagier mio, ch’a terra strana volto
per giovar a la patria, il mondo lassi,
te piango, e piangon meco i liti, i sassi
e l’erbe, che per te crebber già molto.

Tu le palme latine hai di man tolto
ai nostri tutte, con sì fermi passi
salisti ‘l colle. Or quando più vedrassi
tanto valor in un petto raccolto?

Grave duol certo; pur io mi consolo,
ch’or ti diporti con quell’alme antiche,
che tanto amasti, e teco è ‘l buono e saggio

Savorgnan, che contese a le nemiche
schiere il suo monte, e fu d’alto coraggio,
e poco inanzi a te prese il suo volo.

CXLVI.

Anime, tra cui spazia or la grande ombra
del dotto Navagier, per sorte acerba
di questo secol reo, che miete in erba
tutti i suoi frutti o li dispiega in ombra,

qual gioia voi de la sua vista ingombra,
tal noi preme dolor: poi sì superba
è stata morte, ch’i men degni serba,
e del maggior valor prima ne sgombra.

Piacciavi dir, quando il nostro emispero
diede agli Elisi più sì chiaro spirto,
et egli qual da voi riceve onore,

raro dopo gli antichi: a questo Omero
basciò la fronte e cinsela di mirto,
Virgilio parte seco i passi e l’ore.

CXLVII.

Porto, che ‘l piacer mio teco ne porti,
la vita e noi sì tosto abandonando,
che farò qui senza te, lasso? e quando
udirò cosa più, che mi conforti?

Invidio te, che vedi i nostri torti
dal tuo dritto sentier, già posti in bando
gli umani affetti, e vo pur te chiamando
beato e vivo, e noi miseri e morti.

Deh che non mena il sole omai quel giorno,
ch’io renda la mia guardia e torni al cielo,
di tanti lumi in sì poche ore adorno?

Nel qual, lasciato in terra il suo bel velo,
fa con l’eterno Re colei soggiorno,
onde ho la piaga, ch’ancor amo e celo.

CXLVIII.

Or hai de la sua gloria scosso Amore,
o morte acerba; or de le donne hai spento
l’alto sol di virtute e d’ornamento,
e noi rivolti in tenebroso orrore.

Deh perché sì repente ogni valore,
ogni bellezza inseme hai sparso al vento?
ben potei tu de l’altre ancider cento,
e lei non tôrre a più maturo onore.

Fornito hai, bella donna, il tuo viaggio,
e torni al ciel con giovenetto piede,
lasciando in terra la tua spoglia verde.

Ben si pò dir omai, che poca fede
ne serva il mondo, e come strale o raggio,
a pena spunta un ben, che si disperde


CXLIX.

Ov’è, mia bella e cara e fida scorta,
l’usata tua pietà, che sol mi lassi
al camin duro, ai perigliosi passi,
da me cotanto dilungata e torta?

Vedi l’alma, che trema e si sconforta
per lo tuo dipartire, e ‘n prova stassi
d’abandonarmi e sfida i membri lassi,
per seguir te, qual viva, or così morta.

Ben le dice mio cor: — chi t’assecura?
e forse a lei sua pace turberai,
che di nostra salute in cielo ha cura .—

Ella: — che fo più qui? — risponde — mai
sostegno tale e ben tanto e ventura
perdé null’altra, e tu misero il sai.

CL.

L’alto mio dal Signor tesoro eletto
de’ suoi gemmai più ricchi e con più cura,
quella, che né giudicio né misura
usa nel tor, m’ha tolto; ond’io l’aspetto.

Ché sì mendica e piena di sospetto
è rimasa quest’alma e ‘n così dura
vita, ch’assai le fora a gran ventura
cenere farsi omai del suo ricetto:

tal che leggiera e di quel nodo sciolta
potesse tanto in su levarsi a volo,
che si posasse a piè de la sua donna.

O per me chiaro e lieto e dolce solo
quel dì, né pò tardar, s’ella m’ascolta,
che squarcierà questa povera gonna

CLI.

Quando, forse per dar loco a le stelle,
il sol si parte, e ‘l nostro cielo imbruna,
spargendosi di lor, ch’ad una ad una,
a diece, a cento escon fuor chiare e belle,

i’ penso e parlo meco: in qual di quelle
ora splende colei, cui par alcuna
non fu mai sotto ‘l cerchio de la luna,
benché di Laura il mondo assai favelle?

in questa piango, e poi ch’al mio riposo
torno, più largo fiume gli occhi miei,
e l’imagine sua l’alma riempie,

trista; la qual mirando fiso in lei
le dice quel, ch’io poi ridir non oso:
o notti amare, o Parche ingiuste et empie.

CLII.

Tosto che la bell’alba, solo e mesto
Titon lasciando, a noi conduce il giorno,
e ch’io mi sveglio, e rimirando intorno
non veggo ‘l sol, che suol tenermi desto,

di dolor e di panni mi rivesto,
e sospirando il bel dolce soggiorno,
che ‘l ciel m’ha tolto, a lagrimar ritorno:
la luce ingrata, e ‘l viver m’è molesto.

Talor vengo agl’inchiostri, e parte noto
le mie sventure; ma ‘l più celo e serbo
nel cor, che nullo stile è che le spieghi.

Talor pien d’ira e di speranze vòto,
chiamo chi del mortal mi scinga e sleghi:
o giorni tenebrosi, o fato acerbo!

CLIII.

S’al vostro amor ben fermo non s’appoggia
mio cor, che ad ogni obietto par che adombre,
pregate lei, che ne’ begli occhi alloggia,
che di sì dura vita omai mi sgombre.

Non sempre alto dolor, che l’alma ingombre,
scema per consolar, ma talor poggia:
come lumi del ciel per notturne ombre,
come di foco in calce esca per pioggia.

Morte m’ha tolto a la mia dolce usanza:
or ho tutt’altro e più me stesso a noia,
anzi a disdegno, e sol pianger m’avanza.

Cosmo, chi visse un tempo in pace e ‘n gioia,
poi vive in guerra e ‘n pene, e più speranza
non ha di ritornar qual fu, si moia.

CLIV.

Ben devrebbe Madonna a sé chiamarme
su nel beato e lieto asilo eterno,
e ‘n questo pien di noia e pene inferno
vita mortale omai più non lasciarme:

ché non è sotto ‘l sol ben da quetarme,
sì gli ho tutti col mondo inseme a scherno;
né pò conforto al grave affanno interno,
sendo di fuor chiusa ogni via, passarme.

Ma s’ella il nodo a l’alma non discioglie,
vedendo me di tacito e contento
volto a sì triste e lamentose tempre,

e per sé non m’ancide e quinci toglie
il duol, che del suo ratto sparir sento,
Soranzo, i’ piango e son per pianger sempre

CLV.

Donna, che fosti oriental Fenice
tra l’altre donne, mentre il mondo t’ebbe,
e poi che d’abitar fra noi t’increbbe,
angel salisti al ciel novo e felice,

l’alta beltà del nostro amor radice
col senno, ond’ei tanto si stese e crebbe,
vento fatal sì tosto non devrebbe
aver divelta, l’un penser mi dice,

per cui d’amaro pianto il cor si bagna;
ma l’altro ad or ad or con tai parole
prova quetarmi: a che ti struggi, o cieco?

non era degno di sì chiaro sole
occhio di mortal vista; or Dio l’ha seco,
dal cui voler uom pio non si scompagna.

CLVI.

Deh, perché inanzi a me te ne sei gita,
se tanto dopo me fra noi venisti?
Od io non me n’andai, quando partisti,
teco? e tempo era ben d’uscir di vita.

Porgimi almen or tu dal cielo aita,
ch’io chiuda questi dì sì neri e tristi,
mostrandomi la via, per cui salisti
al ben nato conciglio, alma e gradita.

Mentre i duo poli e ‘l lucido Orione
ti stai mirando, che tra lor si spazia,
più giù qui, dov’io piango, e me risguarda;

e per Giesù, ch’al mondo oggi fe’ grazia
di sé nascendo, a trarmi di pregione
e guidar costà su, non esser tarda.

CLVII.

S’Amor m’avesse detto: — ohimè, da morte
fieno i begli occhi prima di te spenti —,
avrei di lor con disusati accenti
rime dettato e più spesse e più scorte,

per mio sostegno in questa dura sorte,
e perché le ben chiare et apparenti
note rendesser le lontane genti
de l’alma lor divina luce accorte;

ché già sarebbe oltre l’Ibero e ‘l Gange,
la Tana e ‘l Nilo intesa, e divulgato
com’io solfo a quei raggi et esca fui.

Or, poi ch’altro che pianger non m’è dato,
piango pur sempre, e son, tanto duol m’ange,
né di me stesso ad uopo né d’altrui.

CLVIII.

Un anno intero s’è girato a punto,
che ‘l mondo cadde del suo primo onore,
morta lei, ch’era il fior d’ogni valore
col fior d’ogni bellezza inseme aggiunto.

Come a sì mesto e lagrimoso punto
non ti divelli e schianti, afflitto core,
se ti rimembra, ch’a le tredeci ore
del sesto dì d’agosto il sole è giunto?

In questa uscìo de la sua bella spoglia
nel mille cinquecento e trentacinque
l’anima saggia, et io cangiando il pelo

non so però cangiar pensieri e voglia,
ch’omai s’affretti l’altra e s’appropinque,
ch’io parta quinci e la rivegga in cielo.


CLIX.

Quella per cui chiaramente alsi et arsi
undeci et undeci anni, al ciel salita,
ha me lasciato in angosciosa vita:
o guadagni del mondo incerti e scarsi!

Ché s’uom sotto le stelle ha da lagnarsi
di suo gran danno e di mortal ferita,
i’ son colui, ch’a morte cheggio aita;
né fine altronde al mio dolor può darsi.

Ben la scorgo io sin di là su talora,
d’amor e di pietate accesa il ciglio,
dirmi: — tu pur qui sarai meco ancora —

ond’io mi riconforto, et in quell’ora
di volger l’alma al ciel prendo consiglio:
poi torna il pianto tristo, che m’accora.

CLX.

Era Madonna al cerchio di sua vita
trigesimo et ottavo, quando morte
la spogliò del bel velo, eletto in sorte
a vestir alma sì dal ciel gradita.

Perché, crudeli Parche, ancora unita—
mente a trar me del mio non foste accorte?
Cosa non ho, ch’altro che duol m’apporte:
col suo piè freddo ogni mia festa è gita.

Qual alga in mar, che quinci e quindi l’onde
sospingan, vivo, o qual abete in cima
d’altissim’alpe, a l’Austro, al Borea segno.

Se quei pur vive, ch’assai lieto in prima,
perdé poi la sua guida e ‘l suo sostegno,
e sempre chiama, e nessun mai risponde.